NewsIl documento degli under35 sui workshop

Il documento degli under35 sui workshop

WORKSHOP TEMATICI:  il punto degli under 35 di AICI
Michael Musetti, Premessa
Raccolta anche quest’anno l’indicazione del Presidente Spini di essere “protagonisti del proprio tempo”, ventinove under 35 hanno scelto nuovamente di partecipare alle attività di AICI, raggiungendo Trieste durante i giorni della Conferenza annuale “Italia è cultura”.  Supportati dal contributo economico percepito dalla Regione Friuli Venezia Giulia hanno sentito la chiamata al “riarmo culturale” di cui anche Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia, faceva  menzione nel proprio intervento a Trieste, ed hanno scelto di esserci, di contribuire attivamente alle attività della Conferenza annuale seguendo in particolare i workshop (che si sono tenuti nella giornata del 22 settembre 2017) per poi mettersi a disposizione per seguirne la stesura della sintesi conclusiva da inserire negli atti conclusivi che seguono ad ogni Conferenza; una sintesi maggiormente articolata rispetto a quella dello scorso anno, certo, dove l’attività reportistica e l’interpretazione si bilanciano in egual misura. Complice di tale risultato è stata, da un lato la scelta di superare la scelta di svolgere tutti e quattro i workshop in contemporanea tra di loro preferendo porli a “coppie”, dall’altro l’incremento del numero di interventi riscontrati e la ricchezza degli stessi. A tal proposito forse è mancato un momento di confronto e dibattito post workshop, particolarmente sentito dagli under35 che avrebbero voluto condividere maggiormente le proprie impressioni e considerazioni.
Al di là di questo, per ciascun workshop le nuove leve degli istituti culturali italiani hanno preparato due documenti: una relazione riepilogativa di ciascuna tavola rotonda e il punto di vista di ciascun under 35 che vi ha partecipato, fornendo importanti spunti di riflessione che potranno supportare l’operato dell’AICI, e di tutti coloro che lavorano nell’interesse dell’immenso patrimonio culturale di questa nazione.
In piena sintonia tra di loro, gli under35 hanno individuato, per ciascun workshop, un responsabile che ha provveduto a predisporre la relazione riepilogativa di ciascuna tavola rotonda e a raccogliere i vari punti di vista emersi a Conferenza conclusa.
A tal proposito voglio ringraziare personalmente
Luana Dipino, coordinatrice per il workshop “Fare cultura oggi. Esperienze innovative degli istituti” (per il quale hanno collaborato Antonella Nastasi, Ilaria Di Matteo, Jacopo Mazzuri, Giulia Corrado)
Valentina Romeo, coordinatrice per il workshop “La sfida della digitalizzazione” (per il quale hanno collaborato Simone Baral, Francesca Cialdini, Luca Fertonani, Mattia Pivato)
Giulia Corrado, coordinatrice per il workshop “Fondazioni ed Istituti: la formazione e il lavoro dei giovani” (per il quale hanno collaborato Jacopo Mazzuri, Luca Fertonani, Davide Grossi, Valentina Romeo, Luana Dipino)
Antonella Nastasi, coordinatrice per il workshop “Gli archivi della memoria del Novecento” (per il quale hanno collaborato Daniele Bini, Francesca Cialdini, Ilaria Di Matteo)
Il loro contributo ed il loro impegno hanno fatto sì che il documento potesse raggiungere un livello che considero qualitativamente valido e di cui sono dunque particolarmente fiero.
Chiudo questa premessa con una citazione di Michel Foucault che, a mio avviso, ben rappresenta la realtà degli under35 e di quello che potranno essere per AICI e, conseguentemente, per gli istituti di cultura italiani. “Sono un artificiere. Fabbrico qualcosa che alla fin fine serve a un assedio, a una guerra, a una distruzione. Io non sono per la distruzione, ma sono a favore del fatto che si possa passare, che si possa avanzare, che si possano abbattere i muri”
1) FARE CULTURA OGGI. ESPERIENZE INNOVATIVE DEGLI ISTITUTI
SERGIO SCAMUZZI, Vice Rettore Università di Torino
SERGIO SOAVE, Presidente Polo del ’900
NICOLA ANTONETTI, Presidente Istituto Luigi Sturzo
DUNIA ASTROLOGO, Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci Onlus
ANDREA CIAMPANI, Fondazione Energeia
GABRIELE KREUTER-LENZ, Direttrice generale del Goethe-Institut in Italia
VINCENZO VITA, Presidente Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
Introduce e modera: SERGIO SCAMUZZI
La relazione sul workshop
Nella nostra epoca di rapide e incessanti trasformazioni dettate dai tempi del web e dei mass media anche gli istituti culturali sono chiamati ad innovarsi per continuare a fare cultura. Si spiega alla luce di questa esigenza la scelta per il primo workshop di un tema quanto mai concreto e attuale come quello dell’innovazione in campo culturale.
Come ha osservato il moderatore Sergio Scamuzzi, quella richiesta agli istituti culturali è un tipo di innovazione che non si esaurisce in un fatto tecnologico, ma coinvolge molteplici aspetti e che, oltre a dei vantaggi, comporta anche inevitabili criticità. I due principali tipi di innovazione adottati dagli istituti culturali sono l’innovazione di prodotto e quella di processo. Nel primo caso si tratta di creare un rapporto diverso con gli utenti del prodotto culturale, preoccupandosi dell’attualità del prodotto e del pubblico a cui è destinato, un’operazione complessa che spesso si trasforma in una sfida, soprattutto se si intende agire in una prospettiva europea. D’altra parte vi è l’innovazione di processo, che riguarda i modelli organizzativi e decisionali. L’esempio più diffuso è rappresentato dall’utilizzo del modello del network, cioè il modello della rete, che permette di creare un dialogo tra gli istituti ponendoli in un rapporto di collaborazione ma anche di competizione positiva.
In merito a questa tematica, il Presidente dell’Istituto Luigi Sturzo Nicola Antonetti ha mostrato le soluzioni innovative adottate dal proprio istituto. Innanzitutto, dal punto di vista del prodotto, l’Istituto Luigi Sturzo ha scelto di avviare sia sul piano formativo, cioè delle utenze, quanto su quello critico un articolato percorso europeista, ponendosi controcorrente rispetto ad uno spirito antieuropeista che appare ora prevalente. A questo si è accompagnato un costoso impegno sulla digitalizzazione, riguardo alla quale a suo avviso vi è necessità di maggiore educazione dei digitalizzatori sulle finalità e l’apporto della digitalizzazione dal punto di vista della ricerca. Per quanto concerne invece il modello del network, l’Istituto, oltre a realizzare una rete tra istituti e fondazioni, ha istituito una scuola di alta formazione dedicata al tema dell’europeismo e pensata per favorire un dialogo su temi comuni da parte di europei di provenienze diverse.
Anche Sergio Soave ha individuato come parola chiave delle strategie adottate dagli istituti quella di network. Il Presidente del Polo del ’900 ha sottolineato in particolare come fare network significhi principalmente tre cose:
–  una comunità di intenti, come quella che vi è sul tema della digitalizzazione
– un’attenzione al linguaggio nuovo nella comunicazione degli eventi, soprattutto per rivolgersi ad un pubblico di giovani che si serve dei nuovi strumenti di comunicazione
– l’allargamento del pubblico, allo scopo di favorire un dibattito su temi di interesse comune a cui anche il pubblico possa dare il proprio contributo.
In questo quadro si inserisce l’iniziativa del Polo del ’900 di organizzare una volta all’anno un evento in cui il pubblico è invitato a discutere su un tema affrontato con approccio diverso da diverse tradizioni culturali esprimendosi sul punto di vista o sull’interpretazione ritenuta più convincente.
A condividere pienamente il progetto, diventato ormai una realtà, del Polo del ’900 è Dunia Astrologo dell’Istituto Gramsci di Torino, che ha aperto il suo intervento osservando come il confronto tra istituti e fondazioni, ma anche tra queste ultime e il pubblico, permetta di crescere culturalmente in quanto la conoscenza, e quindi la cultura, è azione condivisa e partecipata. Stimolato dall’esperienza degli altri istituti, anche l’Istituto Gramsci di Torino ha tentato di sperimentare nuove forme di comunicazione culturale. Nel tentativo di superare il modello tradizionale e ormai un po’ stantio del dibattito di idee, l’istituto si è aperto ad una cultura più “pop” facendo ricorso ai più moderni strumenti di comunicazione come i social, il web e la multimedialità. È sempre più necessario, infatti, per gli istituti, imparare a servirsi di questi strumenti per comunicare in maniera efficace, soprattutto con i giovani e in questo proprio possono essere d’aiuto gli studenti e i giovani in generale in quanto apportatori di nuova conoscenza. È stato pensato in quest’ottica il concorso artistico aperto dall’Istituto Gramsci agli studenti, italiani e stranieri, provenienti principalmente dai licei artistici (molti dei quali risultavano peraltro ignorare chi fosse Gramsci), al fine di avvicinare i giovani alla conoscenza di Antonio Gramsci attraverso un approccio innovativo e creativo.
Anche l’intervento di Andrea Ciampani della Fondazione Energeia ha posto l’accento sull’importanza della sinergia tra fondazioni e istituti, all’interno di un quadro europeo. Le istituzioni culturali, per rispondere all’esigenza di connettersi con una realtà in continuo movimento, devono misurarsi necessariamente col concetto di impresa creativa adottando una visione d’insieme delle problematiche e una dinamica operativa comune. La Fondazione Energeia, in quanto fondazione internazionale e europea legata al mondo sindacale, ha dovuto adottare quasi per necessità delle soluzioni che permettessero di muoversi al passo con i tempi. Si è deciso così di agire innanzitutto a livello locale organizzando dei corsi di formazione sul territorio; dall’altra parte si è prestata attenzione al movimento sindacale accompagnando il gruppo decisionale nelle sue scelte strategiche. L’organizzazione di un Festival del Lavoro ha permesso ad esempio di creare un dibattito tra le grandi personalità del mondo del lavoro e i decisori locali con l’obiettivo di elaborare una visione strategica culturale europea.
L’esigenza di creare un dibattito su temi comuni tra diversi paesi europei è al centro anche degli interessi del Goethe Institut, attento da oltre sessant’anni ad uno scambio socio-culturale tra Germania e i numerosi paesi ospitanti le sedi tra cui l’Italia. Gabriele Kreuter-Lenz, Direttrice generale della sede italiana, ha mostrato come da due anni il Goethe Institut affronti temi focali come quello della migrazione, dell’Europa e delle tendenze populistiche, tradotti spesso in eventi culturali come mostre e concerti. Oltre ad agire sull’attualità del prodotto culturale, il Goethe Institut ha pensato anche a dei metodi alternativi per coinvolgere un pubblico più ampio; un esempio è quello della trasmissione in live streaming degli eventi, pensato allo scopo di permettere di partecipare agli eventi ed eventualmente di interagire virtualmente anche a chi sia impossibilitato a parteciparvi fisicamente. Pur privilegiando sempre un rapporto diretto con gli utenti, anche l’uso dei social media è considerato importante soprattutto per coinvolgere un pubblico di giovani. Proprio ai giovani guarda un progetto in programma per il prossimo anno che prevede di lavorare per coinvolgere i giovani su temi urgenti come quello dell’infiltrazione mafiosa nelle periferie di Roma; su questi temi potranno intervenire anche esponenti di altri paesi europei proponendo delle soluzioni. In questo modo si riesce a creare un network che mostra come i paesi siano afflitti da problemi comuni e come anche le soluzioni possano essere prese in comune.
Quella del network tra gli istituti e le fondazioni di cultura è la soluzione innovativa proposta anche nell’intervento di Vincenzo Vita, Presidente dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, che si è detto contento dell’interessante percorso intrapreso dall’AICI nel fortificare il legame tra gli istituti culturali italiani in un mondo globalizzato. Per mantenere una rete serve però continuità, la coazione a ripetere, “a starci”, di cui ha parlato Sergio Scamuzzi in apertura. D’altra parte se la rete crea dei vantaggi dal punto di vista della cultura europea essa comporta anche una criticità, quella di rischiare di cadere vittime dei grandi potenti che controllano il web.
In conclusione, su richiesta del moderatore anche Siriana Suprani, Direttrice della Fondazione Gramsci dell’Emilia Romagna, ha riportato l’esperienza innovativa del proprio istituto. La volontà di confrontarsi con l’immagine percepita dall’esterno della fondazione ha spinto a redigere un bilancio sociale sfociato in un documento finale reso pubblico. Dei quattro punti di cui si compone il documento (identità dell’istituto; gestione economica e bilanci; gestione e organizzazione dell’ente; interlocutori) la più debole è risultata l’ultima, concernente gli stakeholders. Questo indica che, nonostante si stiano facendo grandi passi in avanti relativamente all’innovazione del prodotto e dei processi, c’è ancora da lavorare sul modo in cui il pubblico percepisce l’attività degli istituti culturali e quindi ne fruisce.
 
L’opinione degli under 35
“Ritengo che l’espressione “Fare cultura oggi”, utilizzata per titolare in parte il workshop in questione, sia una formulazione abbastanza esigente e in quanto tale, foriera di spunti di riflessione: essa può dunque ingenerare critiche, le quali spesso però, se costruttive, hanno il pregio di far mettere in discussione il proprio modus operandi; al contempo essa, nella forma di un titolo ambizioso, può fungere da sprone al miglioramento. Parlare oggi di “cultura” e di come farla, porta quindi, inevitabilmente, ad interrogarsi su cosa si intenda o si voglia intendere con questo termine, spesso abusato, e su come il singolo e i gruppi collettivi, vogliano e possano operare e cooperare per una crescita della conoscenza, e ancora di più, a mio modesto avviso, della curiosità a conoscere.
I relatori, rendendo partecipi i presenti delle attività dei loro istituti, e soprattutto delle “esperienze innovative” degli stessi, hanno sottolineato l’importanza del confronto, della condivisione delle idee e delle istanze tra i vari istituti, dello scambio interculturale a livello europeo e non solo, e dei mutamenti che, con l’avvento e la massiccia affermazione delle tecnologie, hanno stravolto il concetto tradizionale di “cultura” rendendolo quindi materia di dibattito. Forse oggi “fare cultura” è anche questo: riflettere su questo termine, sul suo uso, e su una sua nozione più condivisa, reale ed applicabile che non smetta comunque di guardare alla tradizione come elemento tensore di preservazione, arricchimento e crescita.”
Antonella Nastasi
“La necessità di rinnovarsi fa parte di qualsiasi sistema vivente che voglia funzionare nella maniera più efficiente e soprattutto più efficace per sé e per chi si relaziona con esso. Lo spiega bene l’evoluzione umana e tutti quei cambiamenti che ogni individuo si trova a fronteggiare quotidianamente per progredire, per crescere, per espandersi e per migliorarsi. Anche negli istituti e nelle associazioni culturali questa necessità diventa sempre più forte e la prima strategia che sembra più utile all’uomo, in quanto animale sociale, è quella di creare legami e quindi fare rete per potenziare le risorse e raggiungere più facilmente l’obiettivo.
Se la cultura è ciò che tiene viva una società, l’obiettivo, quindi, è di custodirla e di farla anche crescere su fondamenta autentiche in costante contatto con la realtà. Come? Rinnovandosi. C’è sempre più bisogno di spalancare le porte di ogni istituto, di varcare i confini e dialogare anche a livello europeo perché è proprio nel confrontarsi con altre identità culturali che quella italiana può definire la propria. Rispondere ai bisogni che emergono in una società, oggi sempre più complessa e che corre e si evolve alla velocità della luce, sembra essere diventato l’obiettivo primario della cultura. Viviamo in una società che invecchia e dove la qualità della vita e la longevità sono aumentate, ma i giovani ci sono e vanno accompagnati e stimolati, non solo perché sono il futuro del paese ma anche per il fatto che nel presente possono essere primo motore di innovazione. Essi, infatti, possiedono per le caratteristiche che la gioventù porta con sé, quelle attenzioni e sensibilità incontaminate che possono illuminare ogni sistema culturale di luci pure e nuove alimentate da idee originali e contestualizzate al nostro tempo. I corto-circuiti che spesso si creano in sistemi chiusi che hanno trovato un loro equilibrio, ma che in certi casi rischiano l’autoreferenzialità, necessitano, quindi, di una scossa che sarebbe utile fosse affrontata con occhi nuovi e propositivi per cambiare e rinnovarsi. Allora diventa davvero sensato iniziare a parlare con una lingua digitale, organizzare iniziative che interessino prima di tutto il mondo giovanile, lanciare progetti nei quali i giovani si sentano coinvolti in prima persona. Non a caso l’etimologia del termine “cultura” invita a “coltivare” ogni conoscenza, ogni pensiero ed ogni idea in maniera del tutto dinamica e flessibile in modo da portare frutti nelle istanze fondanti di una società.”
Ilaria Di Matteo
“Da giovane studentessa e nativa digitale non posso che guardare con entusiasmo all’iniziativa di rinnovamento avviata dagli istituti italiani per fare cultura oggi. Troppo spesso infatti l’immagine stereotipata degli istituti come vecchi e polverosi conservatori di una cultura lontana dalla realtà impedisce di cogliere la grande responsabilità che hanno questi ultimi nel divulgare la cultura e stimolare un dibattito critico.
L’idea di creare un network sia su scala nazionale che europea è apparsa come la soluzione più efficace per porre l’accento su temi focali e favorire un confronto che abbia delle risonanze anche in ambito europeo. Oltre alla strada della collaborazione tra istituti e alla competitività positiva e costruttiva che ne deriva, anche la scelta dei social, del web e della multimedialità come mezzi di comunicazione di attività, eventi e iniziative culturali rappresenta senza dubbio uno strumento strategico per catturare l’attenzione del pubblico di oggi, soprattutto di tipo giovanile.
Tuttavia, malgrado l’innovazione del prodotto e dei modelli di trasmissione della cultura, è emerso come in diverse occasioni gli istituti abbiano dovuto affrontare una difficoltà di fondo: quella di riuscire a coinvolgere il pubblico, spesso poco consapevole dell’iniziativa a cui stava prendendo parte o poco interessato ad approfondire i temi proposti. Esempio, i giovani liceali del contest artistico su Gramsci che, alla domanda su chi fosse Gramsci, non avevano saputo dare risposta; o come per il costoso impegno nella digitalizzazione che ancora non sembra trovare un riscontro positivo nel numero di utenti che ne usufruiscono. Oggi, anche a causa della quantità di informazioni di cui disponiamo e della facilità con cui è possibile procurarsele, si è portati ad avere un approccio superficiale alla cultura, spesso confusa con la quantità di conoscenza, che non significa però più libertà.
Si pone così sempre più la necessità di partire dalla base: educare e, citando Paolo Baratta, insegnare ad amare, a desiderare ed essere curiosi di cultura, spiegando come non è tutto scontato e come fare cultura non sia una semplice attività di promozione e vendita di un prodotto, ma lavoro che richiede sguardo critico, consapevolezza e metodo. Condivido pertanto i tentavi degli istituti di cultura di promuovere delle conoscenze in “pillole” attraverso i social o con eventi promozionali, rimandando agli scritti prodotti in merito.
Da ventunenne credo che oggi la sfida più grande per la cultura sia di rendere noi giovani più partecipi e consapevoli del ruolo della cultura innanzitutto come bagaglio personale e identitario, proprio come ci ha invitato a fare l’AICI dando a noi giovani la possibilità di partecipare a questa Conferenza. Forse, forti di questa consapevolezza, potremo realmente essere capaci di rendere la cultura anche uno strumento economico.”
Luana Dipino
“Nelle istituzioni culturali serpeggia il timore, dopo anni ingloriosamente segnati dallo slogan “con la cultura non si mangia”, di non essere capaci di interpretare i tempi nuovi (nuovi nei mezzi e nei modi di comunicare col pubblico nonché in quelli partecipare alla formazione della sua opinione, nuovi nella ricerca di finanziamenti che lo Stato non sembra sempre in grado di garantire come in passato…) e di giocare il ruolo che ad esse spetterebbe; fortunatamente, occasioni come questa di Trieste manifestano anche una diffusa volontà di reazione, di ricerca degli strumenti che permetteranno di superare positivamente la crisi.
Appare condivisibile, nella ricerca delle necessarie linee che guidino l’azione, l’impostazione data dal prof. Scamuzzi: da un lato far capire l’attualità e l’importanza di ciò di cui si occupano le nostre istituzioni (per esempio, l’Istituto Sturzo si muove sul terreno della discussione sull’europeismo), in modo da evitare che nella percezione collettiva esse vengano musealizzate; rendere  il patrimonio bibliotecario e archivistico accessibile per vie digitali è un ottimo mezzo, a cui si aggiungerebbero proficuamente le proiezioni live degli eventi così come la loro registrazione su piattaforme on-line; dall’altro, incentivare le iniziative che mirano a fare rete fra più soggetti, specie nella prospettiva di competizioni internazionali per l’acquisizione di risorse. Proprio in questa ultima prospettiva, però, non si può non ricordare che fare rete, oggi, significa aprirsi a collaborazioni anche con soggetti extra-italiani, in modo da partecipare alla creazione di una comune coscienza europea.
Preme ricordare, tuttavia, che l’aggiornamento non deve mettere a rischio le identità : anzi, l’apertura all’esterno deve essere il veicolo per ribadire non solo l’attualità delle istituzioni che partecipano all’AICI, ma anche l’occasione (come suggerito da più di un intervento fra quelli occorsi) per ribadire l’attualità del messaggio di cui esse si fanno portatrici, che spesso è legato all’elaborazione di una figura significativa della cultura italiana (ad esempio, Rosselli, Gramsci, Sturzo…), e permettere ad esso di continuare a vivere nel XXI secolo pur nel mutar dei linguaggi; una missione importantissima soprattutto per coloro che operano per la preservazione di quelle culture politiche di cui oggi viene (alle volte con un certo compiacimento) dichiarato il decesso.
Allo stesso modo coloro che si occupano di discipline apparentemente obsolete (buona parte di quelle umanistiche, a detta di certe vulgate) possono, grazie ad un aggiornamento dei mezzi di comunicazione, tentare di (e, si spera, riuscire a) conquistare una nuova attrattività sulle giovani generazioni.
Tale opera vede nel coinvolgimento diretto dei giovani e, laddove possibile, nell’attribuzione a loro di responsabilità gestionali e lavoro, un passaggio necessario, giustamente posto al centro dell’attenzione di un altro degli workshop organizzati nel corso di questa Conferenza.”
 Jacopo Mazzuri
“Penso che il mondo della cultura oggi viva una dicotomia fra tradizione e avanguardia, soprattutto sotto il profilo dei linguaggi e dei mezzi di comunicazione adottati. Da un lato, infatti, resiste e merita di essere custodita e valorizzata quell’esperienza della cultura fatta anche di una sua fisicità: di carta, di archivi, di biblioteche, che impone la lentezza della ricerca e della riflessione; dall’altro, la velocità, il dinamismo e l’immediatezza imposte da un contesto fortemente globalizzato, che sono ormai parte della contemporaneità, rischiano di decretare la morte della cultura, identificata nella sua incarnazione tradizionale e quindi interpretata come qualcosa di “vecchio”. Se ciò non vale per la rete di istituti di cultura, per l’accademia, per gli operatori culturali e per gli appassionati, resta certamente vero per le masse: la sfida deve pertanto essere quella di riuscire ad avvicinare il pubblico ai prodotti culturali e alle attività degli istituti, in un modo che riesca ad essere rigoroso ma capace di attrarre anche chi non si avvicinerebbe naturalmente a questo mondo, dismettendo il pregiudizio che la parola “pop” spesso porta con sé.
“Pop” non significa infatti necessariamente uno svilimento del contenuto o della forma culturale: significa riuscire a mediarlo e a renderlo fruibile ad un pubblico più vasto, fornendo strumenti per facilitarne l’accesso e la comprensione, a beneficio non solo degli individui ma soprattutto della società. In questa missione di allargamento del bacino di utenza, che mai come oggi rappresenta uno sforzo necessario, la capacità degli istituti di fare rete e di adeguare la fruizione culturale ai nuovi mezzi di comunicazione assume una rilevanza centrale. Infatti, se è vero che l’unione fa la forza, è altrettanto vero che l’autorità e la scientificità di cui gli istituti di cultura sono garanti rappresenta a sua volta la sicurezza di prodotti culturali di qualità. Porsi il problema dell’apertura ad un pubblico più vasto e magari tradizionalmente non interessato alla cultura incarna una missione anche politica: quella della sua democratizzazione, intesa nella sua accezione di “accessibilità” e non in quella di “imbarbarimento”, che spesso invece le si associa.
In un’epoca che si muove su binari di interattività, condivisione e partecipazione, chi non riesce a costruire un ponte tra il suo patrimonio (che si traduce in un’offerta) e il pubblico è destinato a restare confinato: la cultura non può e non deve essere oggetto di questa esclusione e non possiamo sottrarci al dovere di impedire che ciò accada. Per la loro natura di custodi ma anche di intermediari del sapere, non esistono attori migliori e più qualificati degli istituti di cultura per assolvere ad un compito del genere.”
Giulia Corrado
2) LA SFIDA DELLA DIGITALIZZAZIONE
MARGHERITA AZZARI, Società Geografica Italiana
GIUSEPPE ARIANO, Agenzia per l’Italia Digitale
BRUNO BONIOLO, Polo del ‘900
SIMONETTA’ BUTTÒ, Direttrice ICCU
MARIELLA GUERCIO, Presidente ANAI
LAURA MORO, Direttrice ICCD
STEFANO VITALI, Direttore ICAR
GIORGIA ABELTINO, Director Public Policy Google Art & Cultural Institute
Introduce e modera: MARGHERITA AZZARI
Margherita Azzari ha introdotto il tema centrale del workshop sostenendo che la digitalizzazione è strategica all’interno del settore cultura e può essere affrontata da dimensioni diverse che richiedono anche approcci specialistici. Tali dimensioni, fortemente correlate tra di loro, sono le seguenti: tecnologica, culturale, sociale, normativa, economica. La correlazione si può riscontrare, ad esempio, nello sviluppo delle tecnologie abilitanti, che favoriscono l’inclusione sociale, o nell’innovazione tecnologica che può contribuire a ridurre drasticamente i costi, migliorare la qualità dei contenuti, garantire forme di fruizione diverse; quindi di fatto essere un motore per la creazione di nuove attività economiche e di nuove professioni. Tale riduzione dei costi può consentire anche di massimizzare l’abilità di digitalizzazione e questo conduce poi di fatto all’incremento dei contenuti disponibile, così da raggiungere l’auspicata democratizzazione della cultura e di conseguenza formare dei cittadini consapevoli della ricchezza culturale identitaria del proprio paese, grazie al patrimonio conservato dagli istituti di cultura.
Un aspetto significativo emerso dalla progettualità degli istituti di cultura, in collaborazione con gli istituti di ricerca e con le amministrazioni locali, riguarda la creazione di sinergie che permettono di diffondere le buone pratiche, di abbattere i costi e anche di creare delle reti virtuose. Ciò è avvenuto ad esempio nel caso dell’alfabeto fotografico romano, ma anche recentemente per le esperienze geografiche condotte dall’Università di Firenze con cui è stato creato un archivio digitale fotografico “memorie geografiche”, nato come progetto locale e che ha poi aggregato una quantità di istituzioni; un progetto pilota in grado di generare conoscenza e forme di fruizione nuova.
L’idea è quella di non creare semplicemente una banca dati accessibile in modo tradizionale, ma anche sistemi di fruizione più accessibili anche ad un pubblico diverso e con esigenze diverse (tramite ad esempio le mostre virtuali). Gli spin off e le start up di tutta la cultura incontrano delle problematiche nella capacità di creare un’impresa efficiente, in quanto è necessario che l’idea dell’impresa sia forte e convincente fin dall’inizio. Da questo punto di vista c’è ancora da lavorare e fare formazione qualificante, un aspetto fondamentale, sia per i giovani che si inseriscono nel mondo del lavoro, sia per gli operatori del settore.
La digitalizzazione costa molto sia in termini organizzativi sia tecnici; tuttavia il ricavo che ne può derivare è significativo per le occasioni di creazione di nuove imprese, di nuove professionalità, di nuovi sistemi di fruizione che vanno a impattare con l’incremento del settore culturale, che è nodale per il nostro paese.
Giuseppe Ariano ha spiegato come AgID sia nata nel 2012 come agenzia proiettata a portare in Italia la trasformazione digitale della pubblica amministrazione; negli ultimi due anni è stata affiancata dal Team digitale, un supporto ancora più operativo alle linee guida. Ariano sostiene che l’Italia sia il paese della cultura e del design (che racchiude i concetti di semplicità, usabilità…).
Dallo scorso maggio AgID sta lavorando al progetto del “Piano triennale” di trasformazione digitale della pubblica amministrazione.  C’è un sito internet “pianotriennale-ict.italia.it”  dove l’utente può non solo guardare e studiare tutto il piano, ma anche considerare l’idea di collaborare attivamente attraverso il forum. La trasformazione digitale è una priorità del governo ed è un gioco di squadra per semplificare la pubblica amministrazione e la vita dei cittadini.
Ancora prima del “Piano triennale”, AgID ha lavorato per l’identificazione delle linee guida per i siti web della pubblica amministrazione. Tramite il sito “Design.italia.it”  c’è il tentativo di rendere i servizi più semplici da utilizzare e da consultare per i cittadini; inoltre l’intento di AgID è quello di creare delle regole semplificando l’interfaccia dei siti web, prima di tutto mettendo al centro dell’attenzione gli utenti. Ci sono inoltre strumenti e piattaforme come SPID, la chiave di accesso unica per tutti i servizi della pubblica amministrazione, che sono in corso di perfezionamento.
Una realtà sperimentale su cui AgID sta incominciando a interrogarsi è quella dell’intelligenza artificiale. Al momento è utilizzata soprattutto nel campo turistico tramite la creazione di applicativi che hanno a che fare con le scelte di ricerca di un sito o di un percorso da fare in un determinato territorio; a tal fine vengono impiegati degli algoritmi di ricerca artificiale da cui si ricavano delle risposte automatiche informative. Un mese fa è stata creata una task force, a livello governativo, in cui trenta esperti da qui a dicembre disegneranno delle linee guida per quanto riguarda l’intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione e per i servizi per il cittadino.
Bruno Boniolo descrive il progetto di ricerca “PRiSMHA” che tramite un approccio scientifico utilizza i metadati per l’accesso agli archivi storici; inoltre è anche interdisciplinare perché coinvolge sia concetti di informatica sia del dipartimento di studi storici. Questo progetto si svolge presso l’Università di Torino ed è svolto in collaborazione con il “Polo del ’900” che lo ha sostenuto e con l’Istituto piemontese Antonio Gramsci, che fornisce gli archivi sui quali sono fatte le sperimentazioni del primo prototipo. Tra gli obiettivi prefissati ci sono quelli di trasformare il patrimonio documentale in risorse fruibili, comunicabili e sostenibili per farne una risorsa viva e anche attrattiva per la città. L’idea è di fare in modo che l’accesso agli archivi non sia solo più quello tradizionale degli studiosi, degli studenti, dei ricercatori, ma sia anche appannaggio di un pubblico più ampio e sicuramente può essere interessante anche nello sviluppo di attività economiche.
Il primo obiettivo della ricerca è dimostrare come una rappresentazione semantica (struttura di concetti) possa rendere più accessibili le risorse di archivio e renderle anche sostenibili. L’idea è che, attraverso le rappresentazioni semantiche ricche e formali, si possa dare una rappresentazione dettagliata di elementi storici inclusi anche i contenuti di questi elementi contemplando il luogo, il tempo, i partecipanti e le relazioni fra gli eventi; quindi non viene fatta soltanto una descrizione di un documento con gli elementi fondamentali, ma si entra nel documento estraendo i fatti essenziali e consentendo poi di navigare all’interno di essi.
La struttura del progetto è composta da un sistema di integrazione in modo tale che questi archivi siano confrontabili. Tuttavia gli aspetti fondamentali di questa struttura sono tre: lo strato semantico, l’interfaccia utente e la piattaforma per costruire il crowdsourcing.
Lo strato semantico presuppone di mettere in campo un modello per costruire dei metadati facendo riferimento ad alcuni concetti essenziali e utilizzando determinati strumenti; come nel caso della costruzione delle ontologie, che possono essere definite come un modello astratto di dominio.
Quindi, nel nostro caso, gli elementi storici e geografici fanno riferimento alle entità rilevanti che sostanziano quel dominio, alle relazioni che ci sono fra loro e alle regole che le caratterizzano (che vengono denominate assiomi). Un’ontologia computazionale è una rappresentazione formale di un modello che ricostruisce un percorso mentale, una realtà costituita di oggetti, di relazioni tra questi costruita in modo che anche la macchina sia in grado di capirla. L’altro elemento che si deve utilizzare è un altro tipo di database nel quale i dati sono rappresentati e immagazzinati in funzione di un’ontologia. Ciò significa che sono dati costruiti sulle basi di triple, cioè di rapporti tra soggetto, proprietà, oggetto.
L’interfaccia utente permette di scoprire e di raggruppare gli eventi; permette di scegliere una persona, un luogo, un’organizzazione, un gruppo e ricavare tutti gli avvenimenti che riguardano questa persona e tutti i documenti digitalizzati. Si arriva a poter navigare in queste storie e a poter individuare anche tutte le connessioni collaterali.
Per poter costruire i metadati in questo progetto di ricerca viene utilizzata una forma di crowdsourcing, costruendo una piattaforma web, che permetta a più persone di raccogliere i metadati. Il processo finale a cui si vuole giungere è di avere un testo, una sua digitalizzazione e un’estrazione automatica che viene fornita a un gruppo di crowdsourcing che a sua volta elabora i metadati.
Nel suo intervento Simonetta Buttò ha ricordato che gli istituti culturali rappresentano un’importante realtà per la ricchezza e per la varietà delle collezioni che conservano. La maggior parte di questi fa parte di SBN (Servizio Bibliotecario Nazionale), la più vasta capillare rete bibliotecaria nazionale che lavora in modalità online.
Circa vent’anni fa l’ICCU (Istituto Centrale per il Catalogo Unico) ha realizzato i primi progetti di digitalizzazione elaborati a livello nazionale e ha rappresentato l’Italia nelle nascenti reti europee per l’integrazione, lo scambio e la condivisione dell’eredità culturale. Queste banche dati, che talvolta sono difficilmente rintracciabili, dovrebbero costituire i nodi di una rete finalizzata alla raccolta, alla valorizzazione e alla fruizione del Digital Cultural Heritage.
Il complesso dei servizi digitali prodotti dalle biblioteche italiane può rappresentare per tutti i cittadini il punto di accesso unico all’informazione bibliografica e alla consultazione in rete delle risorse digitali.
Secondo Mariella Guercio, uno dei rischi che si corre quando viene trattato il tema della digitalizzazione è di ridurre questo processo a una frammentazione e a una polverizzazione dei contenuti. È sua opinione che sia necessario andare oltre la specificità del settore che implica avere un alto livello di formazione e avere dei professionisti che non hanno paura, che sanno contaminarsi, convergere e condividere, perché partono da una forza professionale culturale concettuale di alto profilo.
È convinzione di Guercio che nel DNA del lavoro culturale, delle associazioni culturali, delle istituzioni pubbliche e in generale del settore no-profit ci sia un principio importante sempre presente di semplificazione e di razionalizzazione.  Le istituzioni e le associazioni hanno un problema enorme di mancanza di risorse; in quest’ottica è sua opinione che una politica culturale debba essere consapevole della propria natura, dei propri doveri e debba trovare sé stessa, la forza di riarmarsi. Si dovrebbe guardare agli altri paesi europei dove le istituzioni culturali (anche se non hanno le stesse difficoltà di crisi economica come l’Italia) sono sempre riconosciute; è necessario quindi trovare un’alleanza forte e strategica.
Sicuramente il processo di digitalizzazione suscita da trent’anni (dai primi progetti dei beni culturali) aspettative notevoli, che incontrano delusioni cocenti; infatti c’è un’aspirazione al digitale che ha finito per spingere la politica a promettere e a farsi abbagliare da soluzioni miracolose. Guercio afferma che le istituzioni culturali debbano essere un presidio qualificato e coordinato; ciò implica che digitalizzare debba voler dire, innanzitutto, avere le risorse per mantenere il digitale e poter garantire la continuità, la qualità e la sostenibilità.
Un punto ideale potrebbe essere condividere obiettivi e progetti. È necessario avere la capacità di mettersi insieme e di rinunciare a qualche autoreferenzialità di troppo, per poter fare un percorso in comune in nome di quell’obiettivo etico a cui le istituzioni culturali pubbliche di tutela sono chiamate. Guercio conclude il suo intervento esortando le istituzioni ad alzare la voce, a riarmarsi e ad avanzare, senza esitazioni, le proprie richieste in ragione dei propri limiti e dei bilanci. In questo senso parla di un obbligo morale verso il paese, verso i giovani, verso il futuro e verso i patrimoni culturali, che devono essere salvaguardati, difesi, protetti e promossi.
A chiudere le relazioni degli attori istituzionali è intervenuta Laura Moro, che ha posto l’accento sulle sfide, gli ostacoli e le prospettive del Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale affidato, per decreto ministeriale dello scorso gennaio, all’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. Il suo ragionamento è partito dalla constatazione che sino ad ora, i diversi attori si sono dedicati all’informatizzazione dei documenti e dei processi, col fine della pubblicazione di un prodotto (la risorsa digitale) e della velocizzazione e semplificazione della sua consultazione.
La transizione digitale significa invece ripensare dalle fondamenta il modo con cui gli uffici, le amministrazioni, gli istituti e i partners privati funzionano al loro interno e cooperano tra loro, affinché l’innovazione dei processi sia effettiva ed efficiente e lo sviluppo di competenze utile e valorizzato.
Nell’ambito dei beni culturali, inoltre, la digitalizzazione non può prescindere dal fatto che il patrimonio materiale a cui fa riferimento non potrà mai essere rimpiazzato da una sua copia informatizzata; occorre piuttosto sfruttare le potenzialità del web semantico e del nuovo ecosistema digitale per riconsiderare finalmente i singoli beni culturali – e gli ambiti e settori disciplinari storicamente a loro collegati – come calati in una patrimonio unitario, che ne costituisce il contesto e li dota di senso, non viceversa.
Secondo Stefano Vitali quello di cui si discute poco è come la digitalizzazione anche del patrimonio culturale abbia cambiato i comportamenti, le abitudini, gli interessi e in generale le modalità di indagine degli studiosi e dei ricercatori. Gli oggetti digitali e quelli che vengono digitalizzati del culture heritage acquistano una vita propria; ossia sono utilizzati, trasformati e vissuti da chi li utilizza in modi imprevisti.
L’amministrazione degli Archivi di Stato, sostiene Vitali, ha sviluppato negli ultimi anni vari sistemi informativi di descrizione del proprio patrimonio. In particolare l’amministrazione archivistica ha sviluppato il cosiddetto sistema informativo degli archivi di Stato e poi ne ha sviluppato un altro che invece descrive quelli al di fuori degli archivi di Stato (Sistema Unitario delle Sovrintendenze Archivistiche). Il primo descrive il grande patrimonio che ha costituito le fonti per scrivere la storia del nostro paese a partire dall’Unità in poi; il secondo, che è quello più consultato, è un’altra tipologia di archivi degli enti pubblici (comuni, regioni, province), delle associazioni e degli istituti culturali. Quest’ultimo sistema di archivi non statale è quello che ha messo a disposizione informazioni che prima non esistevano; infatti ha fatto emergere, ad esempio, archivi sconosciuti, archivi di associazioni e archivi di istituzioni pressoché clandestine. Oggi patrimoni come quelli che si trovano negli istituti culturali, sebbene siano materiali compositi, hanno una storia, un’origine comune; sono patrimoni integrati la cui comunicazione va offerta in maniera integrata.
Ci sono vari portali in cui si può consultare la documentazione digitale; quindi anche gli archivi di Stato in questi anni hanno fatto un grande sforzo di digitalizzazione. In realtà secondo Vitali il portale che offre spunti maggiori di riflessione e che potrebbe servire a fornire elementi di orientamento anche per il futuro interessanti è quello di “Antenati: gli archivi per la ricerca anagrafica”. Questo portale molto popolare quest’anno arriverà ai 120-130 milioni di immagini visualizzate ed è strumento utilizzato non solo in Italia, ma è utilizzato soprattutto all’estero dagli emigranti italiani otto-novecenteschi. In realtà una delle modalità attraverso le quali a livello più popolare ci si accosta al passato è quello attraverso l’esperienza individuale, la storia individuale, la storia delle persone; in primo luogo ovviamente dei familiari, per poi progressivamente allargare le tracce di ricerca. Inoltre questo è un portale vissuto attivamente da coloro che lo utilizzano e in cui gli utenti collaborano alla realizzazione di una produzione attiva di contenuti come gli indici degli stati civili.
L’ultima sfida che secondo Vitali bisognerebbe affrontare riguarda la concessione della libera riproduzione che offre possibilità di diffondere i documenti digitalizzati. Ciò significa che si creerà, nel prossimo futuro, un movimento di pubblicazione spontanea sul web di ciò che è stato digitalizzato. Per Vitali è necessario costruire delle strutture che consentano agli utenti di fare l’upload dei propri materiali e inoltre con i loro strumenti descrittivi e i loro cataloghi rendere i materiali veramente utilizzabili.
Giorgia Abeltino ha parlato di Google Art & Culture, la piattaforma di Google che si occupa della digitalizzazione, in particolar modo della messa a disposizione online, del patrimonio culturale globale. Tale servizio è disponibile sia in versione desktop che app ed è nato nel 2011, con il nome di Google Art Project, quale progetto che rivolgeva un’attenzione particolare al mondo dell’arte. Nel corso degli anni ha notevolmente ampliato il proprio perimetro d’azione ed oggi abbraccia la cultura a tutto tondo, dalla storia (in sintonia con il lavoro degli archivi) all’etnografia e a molti altri ambiti. L’obiettivo del progetto è duplice: da un lato si intende favorire la democratizzazione dell’accesso alla cultura, permettendo potenzialmente a qualunque persona, quale che sia il luogo in cui vive, di poter conoscere il patrimonio culturale globale. Il secondo obiettivo è invece il potenziamento della collaborazione con le istituzioni culturali (musei, archivi, biblioteche, organizzazioni internazionali che operano nel settore culturale) al fine di utilizzare al meglio gli strumenti tecnologici per le finalità proprie del progetto.
Quando iniziò, i musei e le istituzioni culturali che aderirono furono soltanto sedici, e ciò probabilmente per il fatto che Google doveva ancora conquistare un buon grado di credibilità in questo ambito specifico. Nel corso degli anni i partners sono passati ad oltre milletrecento, sparsi in ottantuno diversi paesi al mondo. Uno dei motivi di tale successo è stata senz’altro la politica di gestione dei diritti adottata per il progetto Arts & Culture:  Google opera in qualità di partner tecnologico (privo tuttavia di uno specifico know how in campo artistico-culturale) digitalizzando il patrimonio del soggetto istituzionale che aderisce al progetto mediante l’impiego delle migliori tecnologie ad oggi disponibili (realtà virtuale, storytelling, intelligenza artificiale…), lasciando però la titolarità dei diritti sui beni digitalizzati in capo a quest’ultimo, che dunque può sfruttarli nel modo che ritiene più opportuno. L’attività svolta da Google è dunque totalmente no profit, non potendo trarre ricavi dall’utilizzo della piattaforma online, benché sia in ogni caso titolare di una licenza concordata con il legittimo detentore dei diritti.
Se questo è il quadro generale nel quale si inserisce il progetto Arts & Culture, quattro sono le linee direttrici che orientano il lavoro di Google nel proprio operato: accesso alla cultura; tipologia di esperienza digitale da far vivere all’utente; mantenimento dell’interesse di quest’ultimo nei confronti dei contenuti culturali (il cosiddetto engagement); relazione tra soggetto pubblico e soggetti privati. I primi tre punti mostrano la centralità del cittadino quale perno e destinatario dell’attività di Google: la tecnologia digitale, in tal senso, rappresenta solo lo strumento necessario al raggiungimento di uno scopo. Proprio in relazione al fruitore del servizio, può trattarsi naturalmente sia di un utente già appassionato o studioso d’arte, ma anche del semplice neofita che, grazie alla piattaforma, si avvicina per la prima volta al mondo dell’arte. Ecco perché porsi il problema dell’accesso alla cultura significa analizzare l’impatto sociale che esso provoca, soprattutto nelle realtà a più basso tasso di scolarizzazione o con le maggiori difficoltà di fruizione di prodotti culturali. Il secondo elemento che va preso in considerazione è l’esperienza vissuta dall’utente grazie a Google Arts & Culture: resta indubbio, come premessa, che la visione e il godimento dal vero di un’opera d’arte non potranno mai essere sostituiti da alcun surrogato digitale o tecnologico; tuttavia la sfida principale è ricercare una sinergia tra l’esperienza digitale e quella fisica. Ed è proprio questo il punto nodale che va discusso con i partners culturali quando si inizia un percorso di collaborazione con Google. Qual è dunque l’elemento che può maggiormente interessare e catturare l’attenzione dell’utente online, in grado poi di condurlo a visitare di persona il museo e vedere dal vero le opere d’arte consultate sulla piattaforma digitale? Si tratta di riuscire a stimolare il visitatore digitale al punto di tradurlo in visitatore reale. La sfida in questo senso non è tanto quella di fornire all’utente una mole di informazioni, immagini o dati online, che difficilmente lo appassionerebbero al punto da voler approfondire la conoscenza di un certo bene artistico o culturale. Alla quantità di informazioni va preferita la qualità della narrazione: tramite la collaborazione di curatori museali ed esperti delle istituzioni culturali partners dell’iniziativa, occorre sviluppare uno storytelling mirato relativo alle opere più significative presenti in collezione, così da creare un stimolo attrattivo per l’utente e invogliarlo ad approfondire la ricerca recandosi di persona al museo. Qui va potenziata la correlazione tra presenza digitale e visita fisica delle persone che usufruiscono di Google Arts & Culture, la quale va sempre più sviluppata sinergicamente per aumentare la diffusione della cultura.
Il terzo punto è l’engagement, l’obiettivo forse più ambizioso di progetti come quello implementato da Google. Una volta che l’utente si è collegato alla piattaforma e ha navigato all’interno delle collezioni custodite da un museo, un archivio o una biblioteca, cosa può fare quest’ultimo per mantenerlo fidelizzato, facendolo ritornare più volte sia online che fisicamente nelle proprie sale? Alcuni strumenti tecnologici potrebbero fornire un valido supporto in tal senso: dallo sviluppo di un’esperienza di realtà virtuale all’invio di messaggi mirati, applicazioni o giochi su smartphone rivolti al visitatore per aggiornarlo sulle novità dell’ente e mantenerne alto l’interesse verso i propri contenuti culturali.
Da ultimo va considerato l’aspetto della relazione tra pubblico e privato. Un intento è senz’altro quello di uscire da logiche di autoreferenzialità, nelle quali Google stesso si è ritrovato ad agire in principio, per sviluppare invece un’interazione virtuosa tra soggetti istituzionali pubblici e privati, in una logica di ascolto costruttivo delle esigenze e dei bisogni degli enti culturali. È di tutta evidenza che tali bisogni sono differenti e molteplici a seconda che il soggetto partner sia un museo, un archivio, una biblioteca o un’istituzione che eroga differenti servizi culturali. La finalità più importante per un soggetto come Google è riuscire a mettere a disposizione di costoro il proprio know how tecnologico, declinandolo di volta in volta in base alle specifiche necessità ed aspettative di ciascuno. La sinergia non deve tuttavia avvenire in una logica sostitutiva, poiché Google non possiede né possederà mai la competenza specifica di settore che invece hanno i partners culturali con cui collabora e, soprattutto, poiché non è questa la mission primaria che lo contraddistingue; la cooperazione deve semmai svilupparsi in chiave integrativa, svolgendo Google il ruolo di soggetto abilitante capace di fornire a simili enti il proprio supporto tecnico per una migliore e più ampia diffusione dell’accesso globale alla cultura.
 
L’opinione degli under 35
“La tavola tematica sulla Sfida della digitalizzazione è stata di notevole interesse per gli argomenti affrontati e per la diversità di esperienze illustrate dai rappresentanti degli istituti culturali. Come ha messo in evidenza la prof.ssa Margherita Azzari, l’argomento della digitalizzazione può essere affrontato da vari punti di vista e con diversi approcci. I progetti di ricerca e le attività che sono stati presentati hanno fatto emergere la ricchezza di una risorsa come l’informatizzazione e l’importanza che questa riveste per gli istituti culturali.
Molti dei progetti di digitalizzazione sono dedicati alla valorizzazione del patrimonio archivistico e bibliografico degli istituti culturali e possono creano nuovi strumenti di ricerca: non solo è possibile accedere direttamente all’opera in digitale, ma spesso i sistemi di marcatura permettono diverse modalità di interrogazione delle banche dati. In questo modo possono delinearsi anche nuove interessanti linee di ricerca. Inoltre, i progetti di digitalizzazione sono importanti per la formazione dei giovani, che possono così acquisire nuove competenze specialistiche.
La digitalizzazione rappresenta una risorsa non solo per la ricerca scientifica ma, attraverso una più facile consultabilità da parte di un pubblico il più ampio possibile, diventa uno strumento di rilievo per la divulgazione culturale”.
Francesca Cialdini
“Il titolo del workshop ha evidenziato perfettamente come gli enti culturali debbano considerare il fenomeno della digitalizzazione: una sfida. Si tratta infatti di una scelta obbligata, dettata dalle nuove modalità di comunicazione, di utilizzare canali inediti e in un certo senso ostili, in quanto prediligono l’immediatezza e le immagini ai pensieri lunghi e alla riflessione. Un processo complesso, dalle varie sfaccettature, che tuttavia deve essere considerato come un’occasione di rilancio e d’affermazione. D’altra parte, il patrimonio culturale italiano è ricchissimo, sarebbe assurdo non dargli la visibilità che merita. La digitalizzazione è un processo interdisciplinare, che coinvolge diverse aree di studio e competenze.
Un’analisi prettamente tecnica non è sufficiente alla sua comprensione, e il mondo della cultura in particolare deve porsi alcuni interrogativi che riguardano il fenomeno nella sua globalità: non si tratta di vendere un prodotto come farebbe un’azienda, ma di sensibilizzare fasce sempre più ampie di popolazione. L’esigenza è appunto quella di interessare e coinvolgere un pubblico sempre più ampio, in precedenza spesso estraneo ai messaggi degli istituti culturali. Questo ampliamento pone l’esigenza di declinare i messaggi attraverso linguaggi comprensibili anche per i nuovi utenti, senza abbassare il livello dei temi trattati. A questo proposito, è da sottolineare come non debba essere privilegiata la quantità dei dati ma la qualità della proposta. Si rende necessaria la collaborazione dei vari enti per costruire piattaforme sempre più connesse tra loro, in modo che il destinatario non sia costretto a destreggiarsi in un labirinto di siti e le informazioni non vadano perse. Gli stessi utenti vengono posti al centro del processo in quanto non sono fruitori passivi, ma possono contribuire all’elaborazione di nuovi contenuti: la creazione di reti virtuose e la democratizzazione del dibattito sono obiettivi fondamentali del processo di digitalizzazione. Solitamente i giovani sono più ferrati nell’utilizzo delle nuove tecnologie, ed essendo in gran parte loro i prossimi fruitori dei contenuti digitalizzati, sarebbe un gravissimo errore escluderli dalla loro elaborazione.
Si tratta quindi anche di un’occasione di sensibilizzarli e inserirli nei contesti culturali della penisola, grazie alle possibilità occupazionali create dalle nuove tecnologie. Un capitolo a parte andrebbe aperto sull’educazione all’utilizzo dei mezzi informatici e dei social networks, visti i pericoli che possono derivare da un loro uso errato. Questi strumenti non vanno intesi come una sostituzione di quelli più tradizionali, del confronto e scambio diretto di informazioni e del contatto umano, ma rappresentano piuttosto un’ulteriore alternativa e un supporto alle consuete modalità”.
Luca Fertonani 
“Abbattere le barriere per la fruizione e divulgazione del patrimonio artistico e culturale rappresenta senza dubbio uno strumento, probabilmente tra i più efficaci, per diffondere conoscenza e perseguire politiche di inclusione sociale anche attraverso la cultura. In questo senso la sfida intrapresa da Google col progetto Arts & Culture, muovendo dalla volontà di agevolare l’accesso al patrimonio digitalizzando collezioni e beni storico-artistici museali, rappresenta una buona pratica di diffusione del sapere che sfrutta le potenzialità offerte dall’evoluzione tecnologica. Le statistiche ci dicono che sempre più persone trascorrono parte del loro tempo online, per svago e/o per lavoro e, fra queste, i giovani rappresentano certamente la fascia più connessa. I dati del Rapporto Giovani, a questo proposito, mostrano che “a internet e in particolar modo al web 2.0 i millennials guardano sia come sfera mediale-informativa sia come ecosistema sociale in cui sperimentare nuove forme di socialità e di organizzazione per tentare di dare vita a percorsi di inclusione sociale dal basso”, non senza dimenticare le opportunità professionali che il network sviluppato in rete può loro offrire. Se i giovani dunque spiccano per presenza e utilizzo massiccio dei nuovi media, forse proprio loro costituiscono un pubblico dedicato a cui anzitutto guardare nell’implementazione di piattaforme di fruizione culturale come Google Arts & Culture. E questo per una duplice ragione: anzitutto per favorire una genuina operazione di diffusione della conoscenza educando al contempo ad un utilizzo consapevole della rete e delle risorse che mette a disposizione; secondariamente perché, proprio attraverso un’interazione più proattiva piattaforma-utente, anche potenziando l’aspetto social  della fruizione dei contenuti (cosa per cui le nuove generazioni sono naturalmente predisposte) si possono ulteriormente stimolare strategie di engagement e fidelizzazione.
La “condivisione emozionale”, molto spesso virtuale più che reale, è infatti oggi una modalità diffusa di vivere esperienze che, se ben orientata, può suscitare un’efficace persuasione anche formativa e culturale. Mantenendo tuttavia ben chiaro che democratizzare l’accesso al patrimonio culturale non significa democratizzare la cultura in sé, allargandone indefinitamente i confini definitori, abolendone gerarchie di valore e qualità e degradandone di conseguenza il contenuto. Si tratta semmai di intensificare un processo il cui fine ultimo deve tendere a stimolare la curiosità del conoscere e ad aumentare la platea di coloro che, coniugando tradizione e innovazione, rispondono in modo nuovo al bisogno di sapere”.
Mattia Pivato
“Secondo me dal workshop sono emersi vari spunti di riflessione, anche in una prospettiva lungimirante, sulla sfida della digitalizzazione, soprattutto nel settore culturale.
Sebbene vi siano delle problematiche latenti, già emerse anche lo scorso anno alla III Conferenza di Lucca, come la scarsità di fondi da investire sul digitale e l’autoreferenzialità degli istituti culturali, è chiaro che in un’ottica futura il settore culturale italiano sarà sempre più influenzato dalla digitalizzazione e in generale dai nuovi dispositivi tecnologici.
Dal workshop si denota anche che, ad oggi, le principali priorità dei vari istituti possono essere riassunte in: democratizzazione della cultura, condivisione (di conoscenza, di informazioni, di documenti, di networks relazionali…) e importanza prioritaria all’utente/cittadino.
Per quanto riguarda la conoscenza e l’approfondimento della storia italiana la digitalizzazione degli archivi di stato è uno strumento conoscitivo utile non solo per gli studiosi e i ricercatori, ma anche per gli utenti che vogliano conoscere le proprie origini identitarie; come detto da Stefano Vitali citando il sito web “Antenati: gli archivi della ricerca anagrafica”.
Sicuramente le mostre virtuali sono un modo innovativo per cercare di raggiungere la democratizzazione culturale, ma anche i progetti di ricerca come “PRiSMHA” del Polo del ‘900 e dell’Istituto piemontese “Antonio Gramsci” sono da prendere come un prototipo a cui ispirarsi; soprattutto per la convergenza tra concetti informatici e risorse culturali.
Anche le linee guida di AgID possono essere determinanti per la progettazione dei siti web anche degli istituti culturali e per la fruizione e l’accesso ai prodotti culturali per una platea di utenti più vasta e differenziata. Sarà interessante in tal senso vedere l’evoluzione del progetto della task force sull’intelligenza artificiale.
Giorgia Abeltino quando ha affrontato il tema della democratizzazione della cultura ha parlato della realtà virtuale come elemento di impatto sociale. L’Italia da questo punto di vista è ancora molto indietro rispetto agli Stati Uniti (dove addirittura è stato creato il social network “Altspace VR” che si serve principalmente dei visori della realtà virtuale), ma sicuramente la realtà virtuale può essere per il futuro un elemento fondamentale su cui scommettere e investire per incrementare l’accesso e la conoscenza alla cultura in un modo innovativo e rivoluzionario.
Ad oggi gli istituti culturali devono puntare a sviluppare progressivamente un ulteriore avvicinamento anche alla realtà aumentata; quindi alla fruizione della cultura tramite le applicazioni dello smartphone”.
Valentina Romeo
3) FONDAZIONI E ISTITUTI: LA FORMAZIONE E IL LAVORO DEI GIOVANI
MASSIMILIANO TARANTINO, Segretario Generale Fondazione Feltrinelli
GIORGIO BENVENUTO, Presidente Fondazione Pietro Nenni
CHRISTIAN CALIANDRO, Università IULM, Milano
FILIPPO GIANNUZZI, Fondazione Giuseppe di Vagno
SIRIANA SUPRANI, Direttrice Fondazione Gramsci Emilia Romagna
Introduce e modera: MASSIMILIANO TARANTINO
La relazione sul workshop
Il dibattito politico ed economico italiano attuale vede tra i suoi macrotemi quello dell’occupazione giovanile: l’alto livello di disoccupazione e il livello di istruzione mediamente elevato dei giovani, che spesso comporta un massiccio espatrio verso realtà lavorativamente più promettenti, pone una serie di interrogativi sul rapporto tra domanda e offerta di lavoro, tra competenze acquisite e richieste, e sulla transizione in atto nel mercato del lavoro e nelle forme tradizionalmente ad esso associate. Trovare soluzioni ad un problema simile significherebbe anche evitare lo spreco delle conoscenze e delle competenze già maturate, e non scoraggiare la costruzione di quelle future. In questo dibattito si inseriscono anche le fondazioni e gli istituti di cultura, come realtà lavorative e come possibili protagoniste di nuove forme di lavoro.
L’introduzione di Massimiliano Tarantino sottolinea in questo senso, partendo dalla sua esperienza personale, la necessità individuale di “inventare” il lavoro, in modo anche destrutturato rispetto alla formazione e al territorio di partenza, e l’importanza oggi di rendere comunicanti i mondi della cultura e del lavoro, attraverso l’integrazione del mercato culturale e del mercato del lavoro. In questa prospettiva, le fondazioni e gli istituti di cultura hanno uno spazio per interrogarsi e muoversi nella definizione di nuovi mestieri e nuovi percorsi formativi per i giovani. Nell’ottica dei mestieri, quelli tradizionali associati alla cultura possono oggi fondersi con nuove forme di lavoro delineando nuovi profili di professionalità, come il reperimento fondi (progetti europei, fundraising, valorizzazione delle risorse), lo storytelling (per presentare istituti e fondazioni in modo più efficace al pubblico a cui si rivolgono), il networking (per costruire uno spazio culturale condiviso, trasformando la carenza di risorse in opportunità). Le nuove tecnologie e le nuove forme mediatiche rendono possibile oggi pensare a nuove figure professionali a servizio della cultura e che rispondano ad una domanda concreta da parte degli istituti e delle fondazioni. All’identificazione di queste nuove forme di lavoro deve dunque seguire una riflessione sui percorsi formativi: quelli attuali non consentono ai giovani di collocarsi efficacemente nel mondo del lavoro, e necessitano di essere rivisti e orientati alla luce della domanda di lavoro di aziende e/o di imprese culturali. Il ruolo possibile delle fondazioni e degli istituti di cultura nel proporsi efficacemente come cerniera tra il mondo culturale e quello del lavoro risente anche del problema della fiscalità: la tassazione a carico degli enti culturali è la stessa applicata alle aziende, mentre persiste il problema del reperimento dei fondi.
Siriana Suprani presenta a tal proposito uno studio condotto per conto dell’AICI sullo stato della realtà lavorativa nelle fondazioni e negli istituti che ne fanno parte, occasione per interrogarsi anche sul tipo di cultura del lavoro da essi promossa, sulla concezione delle relazioni lavorative e su come adeguarsi alla transizione in atto nel mondo del lavoro e nei contenuti di domanda e offerta lavorativa. Le energie delle fondazioni e degli istituti dovrebbero indirizzarsi verso lo sviluppo di quel potenziale di occupazione che esprimono, diventando protagonisti della produzione di lavoro e inserendosi nella transizione in atto attraverso la valorizzazione del patrimonio sottoutilizzato e poco conosciuto degli enti di cultura, cercando una sponda necessaria nelle pubbliche amministrazioni, italiane ed europee. In tal senso, uno sforzo particolare deve essere profuso in direzione di interventi innovativi che rendano utilizzabile il patrimonio culturale, come ad esempio i processi di digitalizzazione. Emerge dal quadro occupazionale relativo agli istituti di cultura che una parte consistente del personale, inteso come complesso delle persone coinvolte nelle attività delle fondazioni e degli istituti, presenta un equilibrio di genere e una consistente componente volontaristica, dunque non retribuita ma spesso fondamentale per la conduzione delle attività degli istituti di cultura, a fianco ai pur presenti impiegati con varie formule contrattuali. Illustra in sintesi gli esiti dell’indagine, svolta tramite questionario, graficamente tradotti in slides che sono pubblicate nel volume che raccoglie gli atti della Conferenza (pp. ….. )
Giorgio Benvenuto sottolinea che nell’affrontare il discorso dei rapporti tra lavoro, cultura e ruolo dei giovani non si può prescindere oggi dalla consapevolezza di essere in una realtà a sovranità limitata, dai confini cangianti e poco delineati, pertanto spesso anche contraddittoria, di cui l’emigrazione senza ritorno di una consistente parte dei giovani professionalizzati rappresenta un sintomo. I tentativi di soluzione del problema lavorativo giovanile hanno risentito della miopia della politica, sia in prospettiva temporale che pratica, che ha privilegiato la soluzione di problemi contingenti e definiti per compartimenti stagni, senza una strategia chiara e coerente. I messaggi trasmessi sono stati quindi quelli dell’accontentarsi del “meno peggio”, senza una reale progettualità del futuro e soluzioni efficaci per realizzarlo, e quello dello “spendere di meno”, per cui ogni iniziativa politica è stata protesa al risparmio, approfondendo il solco tra chi ha e chi non ha, anche in senso generazionale. In senso più ampio, ciò ha comunicato conservazione dello status quo, invece che proposte innovative per la valorizzazione e il cambiamento.
Christian Caliandro nota come la cultura (e, di conseguenza, l’opera portata avanti dai soci di AICI) costituisca lo strumento indispensabile per interpretare correttamente l’inevitabile transizione verso “uno stato diverso della realtà, verso quello che possiamo definire un salto evolutivo”. Questa potenzialità, nell’Italia dei nostri giorni, è espressa in modo visibile da una miriade di iniziative che le istituzioni culturali adottano (alcune ben coperte mediaticamente e dunque molto note al grande pubblico, altre meno), le quali costituiscono una messe di veri e propri “esperimenti di futuro”, anticipatori del tempo nuovo. Egli sottolinea anche, però, come l’innovazione (definita “situazione mobile, mutevole, aperta, esperienza continua di un’alterazione sensibile dei contesti e del loro tessuto umano”) che esse sono capaci di promuovere e di portare avanti non sia tanto quella di una creative class à la Richard Florida (ossia un fatto di moda o di parole d’ordine effimere), quanto la possibilità di far nascere e prosperare un ecosistema funzionante e gravido di conseguenze politiche, economiche e sociali (si pensi per esempio al contrasto al crescente classismo ed elitismo della cultura), caratterizzato da una strutturale indipendenza.
Per quanto riguarda la riconduzione delle istituzioni culturali alla categoria di “imprese culturali”, Caliandro ne contesta la legittimità e sostiene piuttosto la loro somiglianza ai “progetti di innovazione sociale a base culturale”, con i quali sarebbero condivisi i seguenti tratti: a) la cura degli altri; b) la raccolta e la conservazione di un patrimonio tangibile (o meno) capace di costruire comunità; c) l’attenzione alla comunità stessa. Proprio prendendo in considerazione queste caratteristiche, sarebbe possibile immaginare lo sviluppo, nel perseguimento di tali obiettivi, di opportunità di stabile occupazione per i giovani. È possibile tratteggiare anche degli esempi concreti: fra questi, la “condivisione”, di alcune figure professionali-chiave (archivisti, fundraisers, social media managers…), nell’ambito di collaborazioni orizzontali fra più istituzioni. Nella direzione indicata dai tre contenuti elencati sopra, iniziative utili potrebbero consistere in un nuovo utilizzo dei numerosi archivi di cui gli istituti sono dotati, senza limitarli alla sola funzione museale bensì rendendoli strumenti di accesso alla conoscenza e di riflessione critica; oppure, nella realizzazione di un sistema informativo nazionale (interno o per i fruitori delle attività che i suddetti istituti svolgono).
Filippo Giannuzzi fa “provocatoriamente” notare alcuni dati su cui ritiene che occorra riflettere. In primo luogo, si domanda se abbia senso che l’80 per cento del personale delle istituzioni AICI sia dedicato alle biblioteche e/o agli archivi [il dato è successivamente contestato da Massimiliano Tarantino, che ricorda come l’indagine precedente esposta evidenzi piuttosto che l’80 per cento delle istituzioni abbia del personale dedicato (non necessariamente in via esclusiva) ad archivi e biblioteche, cosa che ha un significato ed è indicativo, anzi, di un buon impiego delle risorse], quando solo il 24 per cento degli italiani frequenta una biblioteca pubblica; inoltre, sostiene che sommando i vari dati aggregati si evince che solo il 25 per cento di coloro che sono a vario titolo occupati nelle istituzioni suddette ha meno di trentanove anni (quindi sarebbe definibile come “giovane”) mentre il 75 per cento ha quarant’anni o più. Il primo dei due dati dovrebbe, a detta di Giannuzzi (il quale ricorda come la sua fondazione, la Giuseppe Di Vagno, sia impegnata in un progetto di riqualificazione delle biblioteche, puntando all’innovazione dell’offerta culturale al loro interno), far ragionare su come riuscire a intercettare i nuovi linguaggi e comunicare con i potenziali fruitori dei prodotti culturali.
Emidio Spinelli, presidente della Società filosofica italiana, premettendo di intervenire a nome di un’associazione (quindi non di una fondazione o di un istituto, che sono gli unici soggetti citati nel titolo del workshop), espone l’attività che la Società che presiede avrebbe in mente di portare avanti in materia di occupazione giovanile. Un’iniziativa che, a differenza di quelle che hanno proposto gli altri relatori, non guarda alla “invenzione” di nuovi lavori in un mercato del lavoro sempre più vulcanico ma piuttosto a quelli già esistenti, soprattutto nel settore pubblico. A questo proposito richiama l’attenzione su di un recente regolamento ministeriale del MIUR (DM 616/2017), il quale prevede, come canale per accedere all’insegnamento nella scuola secondaria superiore, una laurea abilitante: si pone dunque il problema di “insegnare a insegnare”. Questa è una competenza che il mondo delle università non è ancora organizzato per fornire, e alla cui domanda potrebbero rispondere, in collaborazione con il mondo accademico, proprio le istituzioni culturali specializzate in una certa area disciplinare. È possibile muoversi sulla stessa linea anche nel campo dell’aggiornamento professionale, per esempio promovendo percorsi formativi che coinvolgano diverse università e facendo da collante fra esse. Le attività proposte (in stretta collaborazione con le istituzioni pubbliche) possono non essere quelle “dinamiche” di una impresa culturale, ma sono pur sempre nella natura di istituzioni come quelle che partecipano ad AICI.
 
I commenti degli Under 35
“Dai lavori del workshop è emersa l’esistenza di uno spazio di possibilità occupazionale da sviluppare di concerto con la politica, le pubbliche amministrazioni e i giovani. Il patrimonio culturale italiano custodito dalla rete di istituti e fondazioni può e deve essere carburante per riattivare il motore del lavoro attraverso un approccio innovativo, che possa mettere le professionalità dei giovani al servizio non solo di un singolo istituto, ma della cultura in senso ampio, con il suo effetto moltiplicativo, e per la necessità di farla rivivere anche fuori dagli archivi e dalle biblioteche, rendendola patrimonio attivo e condiviso.
Dal punto di vista pratico e organizzativo, ampliare ulteriormente l’organico delle fondazioni e degli istituti, integrandolo con competenze e conoscenze necessarie a confrontarsi con la contemporaneità, consentirebbe di strutturare anche le attività in modo più efficace, sconfessando l’idea che la cultura sia patrimonio improduttivo e riuscendo al contempo a riavvicinare ad essa ampi strati di popolazione, cercando di ricucire lo strappo tra cultura e masse che negli ultimi decenni sembra essersi approfondito in modo drammatico e con effetti non trascurabili. È chiaro che in questa prospettiva la questione del reperimento dei fondi resta centrale, ma può rappresentare anch’essa un’occasione per l’integrazione di nuove professionalità. La consapevolezza mostrata da parte delle fondazioni e degli istituti presenti in AICI sull’importanza di essere protagonisti di questa necessaria transizione culturale (e non di meno economica) è auspicio della volontà di percorrere questa strada, per la quale esiste, come testimoniato dalla numerosa partecipazione di under 35, la disponibilità dei giovani ad essere parte attiva e cooperativa in un processo che riporti la cultura al centro di quello spazio che il mito della produttività e le società tecnologiche hanno ingiustamente etichettato come inutile e demodé.
Allo stesso tempo, è una sinergia che può rappresentare un tentativo importante verso una possibile soluzione del problema lavorativo giovanile, la cui stagnazione difficile da riassorbire spinge fuori dai confini nazionali moltissimi giovani formati e professionalizzati. Già provare ad arginare lo spreco imperdonabile di risorse e di capacità che ciò comporta potrebbe costituire una spinta propulsiva importantissima per il paese e per l’economia nel suo complesso, dimostrando anche che esistono e resistono un’idea e un bisogno di lavoro culturale, non meno necessario e non meno produttivo di quello industriale e tecnologico”.
Giulia Corrado
“Se è vero che le istituzioni culturali sono in movimento per aggiornarsi ed entrare nel nuovo secolo, esse non possono farlo se non aprendo le porte alle generazioni che questo secolo lo vivranno (meglio, lo stanno già vivendo) come il “loro” tempo. La domanda che si pone è dunque: che ruolo, parlando con più precisione, possono avere i giovani all’interno delle istituzioni culturali (in altri termini, perché esse hanno bisogno di loro)? La quale ne implica un’altra: perché i millenials dovrebbero cercare un ruolo all’interno delle istituzioni culturali? Al di là dell’ovvio arricchimento di prospettiva derivante dall’ingresso nelle istituzioni di chi, per ragioni anagrafiche, molto probabilmente porterà con sé punti di vista diversi anche nello svolgere le funzioni tradizionali (e già in questo senso, nuovi: per esempio, derivanti dalla dimestichezza e familiarità con i mezzi informatici per quanto riguarda la gestione di una biblioteca o di un archivio), un personale più giovane sarebbe (e anche questo non necessita di troppe spiegazioni) maggiormente compatibile con l’esercizio di una serie di mansioni (si pensi per esempio a quelle relative alla comunicazione, strettamente dipendenti dall’utilizzo di nuove tecnologie: classico esempio, il social media management) oggi indispensabili per la sopravvivenza stessa dei soggetti che operano in questo settore. In ogni caso, non può rimanere senza soluzione il problema della tipologia contrattuale che lega i dipendenti (vecchi o giovani che siano) al soggetto presso cui sono collocati, e urgono misure, anche legislative, specifiche come specifico è il settore. Per quanto riguarda la seconda domanda, la risposta è in qualche modo già detta: le istituzioni culturali sono luoghi in cui è possibile (e auspicabile) l’ingresso di energie nuove, eventualmente anche in posizioni “vecchie”. Ma non solo: come è stato suggerito, possono essere anche interessanti luoghi di formazione, che offrano tirocini (possibilmente retribuiti) equivalenti a quelli effettuati in azienda (alcune, del resto, sono delle vere e proprie imprese culturali). Rimanendo sul fronte della formazione, non va sottovalutata l’opportunità di offrire, ove ce ne siano le risorse, occasioni di studio (si pensi all’istituzione di dottorati, borse di studio…) alternative e complementari a quelle del mondo universitario e forse, in alcuni casi, pure godendo di maggiori margini di manovra per orientare queste ultime in direzioni più immediatamente rispondenti al mercato del lavoro. Si amplierebbe e si diversificherebbe così l’offerta formativa che il paese offre alle nuove generazioni: a questo proposito, per esempio, sono pregevoli iniziative come quella prospettata dalla Società filosofica italiana, che sottolinea giustamente la necessità di valorizzare un rapporto strategico (e, si potrebbe dire, dall’alto significato morale) con il settore pubblico”.
Jacopo Mazzuri
“La formazione dei giovani e il lavoro sono fattori di coesione sociale irrinunciabili per una società, al pari della cultura. In Italia questi tre ambiti, fortemente collegati tra loro, presentano problematiche dovute a diversi motivi. Se un tempo elevare la propria cultura ed investire in un titolo universitario era garanzia di accesso ad un lavoro qualificato e ad una posizione di prestigio, oggi lo stesso può rivelarsi controproducente, addirittura un ostacolo nell’accesso al mercato del lavoro. Lavorare in enti culturali significa inoltre per la maggior parte dei giovani svolgere la funzione di volontari. La cultura perde così attrattiva, e viene meno la sua fondamentale funzione di ascensore sociale. Lungi da fatalismi, la soluzione può essere raggiunta grazie ad un lavoro coordinato di tutti quei soggetti che operano per la diffusione dei saperi, che devono puntare a una rivalutazione del lavoro intellettuale e della funzione sociale della ricerca. Il lavoro intellettuale è di per sé una fattispecie molto particolare, in quanto non produce merce e il risultato non è immediatamente traducibile in un certo profitto. Si rende indispensabile il passaggio dal concetto di cultura statica ed autoreferenziale ad uno dinamico, come fattore di sviluppo sociale ed economico.
La digitalizzazione e le nuove professioni collegate ad essa possono rappresentare un’occasione di impiego anche all’interno di istituti culturali, soprattutto per i più giovani. Il mercato globale odierno richiede inoltre la presenza di figure altamente qualificate, capaci grazie alle proprie competenze di garantire elevato valore aggiunto e di contribuire al progresso e allo sviluppo sostenibile. La mancanza di possibilità occupazionali per queste figure è molto forte in Italia, e ha permesso lo sviluppo del triste fenomeno noto come “fuga dei cervelli”. Svalutare il lavoro intellettuale può produrre danni molto seri sul lungo periodo, in quanto significa ignorare il cambiamento e la necessità di investire negli unici settori non automatizzabili e delegabili all’intelligenza artificiale: cura e crescita delle persone, sperimentazione, progettazione e innovazione. In ultima istanza, vista la tendenza della politica a perseguire soluzioni temporanee che seguono la logica del “meno peggio”, la cultura ha l’occasione di mettere in gioco la propria forza critica per stimolare un dibattito sul valore e la funzione del lavoro. Pur senza dimenticare che il mercato in cui ci si inserisce è sempre più globale e complesso, prospettare come uniche soluzioni precariato e politiche di risparmio non può che assecondare ulteriormente dinamiche di recessione e rassegnazione diffusa”.
Luca Fertonani
“A proposito dei temi sviluppati nel corso del workshop, desidero segnalare una questione che ritengo possa interessare tutti gli istituti e le fondazioni culturali italiane. Essa riguarda il percorso professionale di coloro che beneficiano di borse di studio bandite dai nostri istituti. La questione concerne lo status di borsisti e il suo mancato riconoscimento da parte della legislazione italiana in merito al reclutamento universitario, che costituisce per la maggior parte di coloro che svolgono attività di ricerca attraverso il sostegno delle borse di studio degli istituti culturali, il più ovvio sbocco lavorativo.
La legge 30 dicembre 2010, n. 240, recante “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”, ha profondamente riformato la materia, abolendo la figura del ricercatore a tempo indeterminato. Nella nuova normativa il primo passaggio verso un percorso di stabilizzazione è rappresentato dalla figura del ricercatore a tempo determinato di tipo b) (d’ora innanzi RTDb, di cui all’art. 24, comma 3, lett. b), legge n. 240 del 2010) assunto con un contratto triennale non rinnovabile al termine del quale, tuttavia, l’Università è vincolata ad assumerlo in qualità di professore associato qualora, durante il triennio, abbia superato l’abilitazione scientifica nazionale per la seconda fascia.
La partecipazione a questo concorso tuttavia è riservata solo a determinate figure, quattro delle quali definite dalla stessa legge n. 240 del 2010 e una definita dal decreto-legge 30 dicembre 2015, n. 210. Tali figure sono:
Coloro “che hanno usufruito dei contratti di cui alla lettera a)” della legge n. 240 del 2010, cioè di un contratto da ricercatore a tempo determinato triennale presso un ateneo italiano (art. 24, comma 3, lett. b), legge n. 240 del 2010);
Coloro che sono stati titolari “per almeno tre anni anche non consecutivi, di assegni di ricerca ai sensi dell’articolo 51, comma 6, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni”, cioè degli assegni di ricerca banditi secondo la normativa del 1997, abrogata dalla legge n. 240 del 2010 (art. 24, comma 3, lett. b), legge n. 240 del 2010);
Coloro che per almeno tre anni anche non consecutivi sono stati titolari “di borse post-dottorato ai sensi dell’articolo 4 della legge 30 novembre 1989, n. 398”, cioè delle borse post-doc bandite secondo la normativa del 1989, abrogata dalla legge n. 240 del 2010 (art. 24, comma 3, lett. b)).
Coloro che per almeno tre anni anche non consecutivi abbiamo usufruito “di analoghi contratti, assegni o borse in atenei stranieri” (art. 24, comma 3, lett. b));
Coloro che per almeno tre anni anche non consecutivi abbiano usufruito di “assegni di ricerca, di cui all’articolo 22 della citata legge n. 240 del 2010”, cioè gli assegni di ricerca così come regolamentati dalla legge n. 240 del 2010 (art. 1, comma 10-octies, decreto-legge 30 dicembre 2015, n. 210, convertito con modificazioni dalla legge 25 febbraio 2016, n. 21).
Vista l’abrogazione delle leggi che istituivano le figure di cui ai punti 2 e 3, nella situazione attuale un neo-dottore di ricerca italiano che si proponga di partecipare a un concorso per RTDb deve partecipare preliminarmente ai concorsi che gli diano accesso alle figure di cui ai punti 1, 4 e 5.
Nella legislazione relativa a queste tre figure è del tutto assente ogni riferimento all’attività di ricerca svolta dai borsisti presso istituti di cultura, fondazioni culturali e centri di ricerca. A conclusione di una esperienza annuale o pluriennale presso un istituto, il borsista si troverà dunque al punto di partenza in termini di titoli validi ai fini della partecipazione ai concorsi per RTDb.
Ciò dà luogo a mio avviso a un paradosso: un percorso di alta formazione che implica un continuo approfondimento personale, un confronto costante con docenti o il lavoro di studio presso una biblioteca o un archivio e non ultima l’opportunità di dedicarsi in autonomia alla propria ricerca non appare valevole ai fini della partecipazione ai concorsi per RTDb.
Confido che l’AICI possa prendere in considerazione l’opportunità di raccogliere il consenso degli iscritti su questa questione, al fine di modificare uno stato di cose penalizzante tanto per gli istituti culturali italiani, quanto per gli aspiranti ricercatori che vi lavorano”.
Davide Grossi
“Ciò che è emerso essenzialmente dalla discussione sulla formazione e il lavoro dei giovani negli istituti culturali è la necessità anzitutto di sfruttare il potenziale occupazionale essendo consapevoli che oggi ci troviamo in una quarta rivoluzione industriale e in un contesto di globalizzazione. Più relatori del workshop a questo proposito hanno parlato di aggiornamento e di innovazione degli istituti culturali in un’ottica di digitalizzazione e di nuova comunicazione. Come conseguenza diretta sono state citate le opportunità di formazione e di sviluppo di nuove professionalità, che coinvolgono le nuove tecnologie e le nuove conoscenze attinenti al mondo della comunicazione; quindi si dovrebbe trovare un network bidirezionale tra i nuovi linguaggi del web 2.0 e i prodotti culturali.
È chiaro che in tal senso i fondi finanziari e le politiche odierne del lavoro rimangono un problema costante, così come l’“espatrio” dei giovani di oggi all’estero soprattutto per avere delle opportunità concrete lavorative. Tuttavia, come è emerso dall’intervento di Tarantino, un possibile punto di partenza propositivo, per creare delle nuove prospettive di lavoro per i giovani all’interno delle istituzioni culturali, è rappresentato dalla creazione di un’alleanza tra le università e le fondazioni culturali. In tal modo verrebbero offerte delle competenze pratiche sviluppando le nozioni e le conoscenze teoriche apprese dai giovani universitari.
Secondo me, parlando per diretta esperienza personale, tale alleanza non è rilevante solo per aspirare ad un’occupazione stabile negli istituti culturali in questo caso, ma è anche un’occasione formativa per conoscere dettagliatamente le realtà e i patrimoni delle fondazioni e soprattutto per apprendere sul campo delle nozioni pratiche che presuppongono anche imparare a utilizzare e gestire gli strumenti comunicativi adottati dalle istituzioni culturali (newsletter, sito web…). Inoltre credo che ci sia un arricchimento per le fondazioni stesse tramite l’inserimento di giovani intraprendenti che hanno un proprio bagaglio di conoscenze culturali, di esperienze e di obiettivi per il futuro. Quindi in tale prospettiva di promozione della formazione e del lavoro dei giovani nelle istituzioni secondo me dovrebbero essere ancora di più incentivati anche i tirocini tra le fondazioni culturali e le università”.
Valentina Romeo
“Credo che una delle più grandi sfide delle forze politiche e culturali odierne sia quella di riuscire a fornire ai giovani impegnati nel campo della conservazione e valorizzazione della cultura gli strumenti adatti per potersi inserire nel mondo del lavoro e mettere efficacemente a frutto le proprie competenze. È emersa infatti dal workshop l’incongruenza che spesso viene a crearsi tra la formazione universitaria e la domanda da parte del mercato del lavoro; a questo si sommano le scelte politiche degli ultimi tempi che, operate, come ha detto Giorgio Benvenuto, all’insegna del principio del “meno peggio” e soprattutto inseguendo la strada del risparmio, hanno impedito ai giovani di trovare nel suolo italiano uno sbocco occupazionale per i propri studi in campo culturale. Si è entrati così in quel circolo vizioso fatto di disoccupazione e conseguente espatrio, nato come un’opportunità, ma diventato spesso una necessità.
Ripartire dalla cultura è diventato così un imperativo per risollevare il paese dalla crisi economica, politica e sociale che la affligge. Ma in che modo? Creando degli indirizzi più definiti che permettano di orientare in maniera più diretta ed efficace verso il mondo del lavoro, attraverso una stretta collaborazione tra scuola, università, fondazioni e istituti di cultura. Tema, questo, su cui si è iniziato a lavorare introducendo provvedimenti come quelli per l’alternanza scuola-lavoro e tirocini come parte integrante del percorso universitario. Una proposta potrebbe essere quella di garantire una formazione continua orientata verso i nuovi strumenti di divulgazione della cultura come l’utilizzo della piattaforma digitale, che inizi dalla scuola e prosegua al di là dell’università attraverso continui corsi di aggiornamento. In più si potrebbe dare maggiore rilievo alle già esistenti figure di intermediazione culturale che, attraverso le proprie conoscenze, permettono di creare un ponte tra il sapere appreso e la realtà, concorrendo ad avvicinare il pubblico al mondo della cultura.
In questo anche gli istituti di cultura, pur non potendosi snaturare diventando delle aziende professionalizzanti, possono dare il proprio contributo. Ho trovato ad esempio interessante il master di primo I° livello in public history introdotto dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, allo scopo di permettere ai giovani laureati nelle discipline storiche di acquisire le competenze – e quindi lo strumento – per divulgare il proprio sapere al grande pubblico e al tempo stesso inserirsi nel panorama del lavoro d’avanguardia. Investendo nella cultura, e di conseguenza anche negli istituti di cultura, si avrebbe modo di trasformare il fenomeno del volontariato – ancora molto, forse troppo consistente negli istituti – in quello di un’occupazione qualificata, con la possibilità di disporre quindi di figure professionali che potrebbero contribuire in senso ampio a superare la crisi che stiamo vivendo.”
Luana Dipino
4) GLI ARCHIVI DELLA MEMORIA DEL NOVECENTO
LUIGI TOMASSINI, Direttore del comitato scientifico della Fondazione di Studi Storici Filippo Turati
GIUSELLA FINOCCHIARO, Presidente Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
EUGENIO LO SARDO, Soprintendente Archivio Centrale dello Stato
SIMONA LUCIANI, Responsabile Archivio Storico Fondazione Lelio e Lisli Basso Onlus
PIETRO POLITO, Direttore Centro Studi Piero Gobetti
Introduce e modera: LUIGI TOMASSINI
La relazione sul workshop
Il Workshop è stato moderato dal Prof. Luigi Tomassini, il quale ha introdotto l’argomento in questione facendo un accenno a quelle che sono attualmente le tematiche salienti nella vita degli istituti:
la gestione delle risorse economiche in relazione all’esigenza di soddisfare nel miglior modo possibile le istanze di promozione delle attività culturali;
il funzionamento e la gestione degli archivi, con particolare riferimento alle nuove tecnologie e alle politiche da adottare;
la cultura.
Tre campi tra loro differenti che inevitabilmente pongono differenti spunti e tematiche di riflessione.
Per quanto concerne il punto 1) la parola chiave è “identità locale e nazionale”: si tratta di un problema incisivo e al contempo divisivo, poiché l’identità, intesa nella sua seconda accezione, rischia spesso di confliggere con la prima e con il problema della solidarietà sociale da essa posto. L’AICI, attore protagonista di operazioni finalizzate alla realizzazione di forti identità culturali, ha in questo caso un compito importante nel capire come gli istituti debbano procedere nello svolgimento delle loro attività per rispettare le due complementari eppur divergenti istanze e fornire quindi ausili, esempi e suggerimenti orientativi.
In relazione al punto 2) viene fatto rilevare il dato per cui gli archivi, in quanto collettivamente possessori di un enorme patrimonio, subiscono l’impatto del rinnovamento tecnologico in maniera molto forte; i mezzi risolutivi adottati a livello locale di fronte a questa problematica potrebbero quindi rivelarsi utili anche per gli istituti a livello centrale. Il ruolo dell’AICI diviene allora quello di “sentinella”, a dimostrazione dell’importanza delle realtà locali, poiché attraverso gli istituti associati l’AICI fronteggia in prima linea varie questioni che si pongono anche a livelli più alti. Esiste quindi un territorio comune tra locale e nazionale, di esame e confronto su dinamiche, problemi, istanze comuni.
Venendo al punto 3), Tomassini ha invitato i presenti a riflettere sul significato del titolo del workshop oltre che su quello del termine “cultura” in relazione al tema della “memoria”: quindi il più generale problema della “memoria” affiancato, però, da quello più incisivo del creare memorie collettive in grado di sintetizzare il passato in un modo quanto più possibile conciliabile con azioni che non siano di mera conservazione: il punto quindi non è più quello della conservazione del bene culturale, ma bensì  della sua trasmissione. Tutto questo affiancato, oggi, ad internet e alla sua logica che è una logica dialettica cosmopolita, di processi globali di comunicazione e informazione, che spesso finisce con l’espungere la dimensione storica dal suo orizzonte, con conseguenze inevitabili.
A tal riguardo, si può ad esempio guardare alla tecnica di conservazione degli archivi: essi non sono più dei depositi, ma dei dispositivi di organizzazione della memoria, dove il sapere tecnico si sposa con operazioni culturalmente significative per il senso della memoria stessa, che in tal modo viene non solo custodita ma anche resa disponibile e fruibile. Certo è anche che la logica parlata dalla rete sia una logica formale e linguistica che guarda alle analogie e agli apparentamenti orizzontali; non rimanda quindi alle tradizionali logiche degli archivi (logica causale e logica diacronica) basate sull’assioma hegeliano del “ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale”, in cui il logos della realtà corrisponde e deve corrispondere alla ragione umana; ecco perché sarebbe opportuno, per quel che riguarda gli archivi, attuare se non una resistenza, perlomeno una visione critica delle logiche della rete (linguistiche, sociali) che non hanno a che fare con la razionalità dialettica in senso archivistico.
Con l’abolizione delle organizzazioni intermedie tra Stato e cittadini, la rivoluzione francese ha distrutto ogni legame esistente di quel tipo, dando origine però, in tal modo, ad un’anticamera della tirannia: allo stesso modo, la massa di informazioni priva di strumenti di mediazione risulta pericolosa.
Siamo, pertanto, di fronte ad una sfida anche in questo senso, perché questo ruolo attivo di trasformazione della memoria pone l’ulteriore esigenza di avvalersi di professionalità elastiche e in continuo aggiornamento oltre che porre il problema della loro formazione.
Tomassini allora propone un suggerimento: il paradigma della public history, disciplina affermata nei paesi anglosassoni ed in Italia svolta in concreto dagli istituti culturali, che si muove su un terreno intermedio tra la storia (intesa come disciplina scientifica) e la grande industria culturale: ruolo dello storico è quello di capire il passato, non solo di riportare la pura memoria degli accadimenti storici ma anche quello di inserirli in un quadro significativo, e oggi questo aspetto nella grande industria culturale manca.
È emersa quindi una linea critica, seppur speranzosa, sulla capacità degli istituti AICI di fungere da propulsori di un riarmo culturale, a partire dal contesto locale, che necessita di adeguati ed opportuni investimenti.
Giusella Finocchiaro ha aperto il suo intervento riflettendo sul fatto che il legislatore, nello specifico il legislatore regionale dell’Emilia Romagna, si sia preoccupato di dare una precisa definizione di “memoria” e di “luogo della memoria” . Questo aspetto induce allora a chiedersi se per “luogo” si possa arrivare ad intendere anche un luogo digitale. In fondo, conservare la memoria è proprio ciò che oggi si chiede al digitale, ma questa esigenza viene a scontrarsi con quella del cosiddetto “diritto all’oblio”. Quest’ultimo potrebbe essere un elemento pregiudizievole per quel patrimonio di conoscenze attuali che andrà a costituire la memoria futura, rischiando di portare ad una paralisi della conoscenza disponibile. Entrando in argomento sull’esperienza diretta, in materia di archivi del Novecento, della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Finocchiaro fa notare come a partire dal 2007 siano state poste in essere esperienze di valorizzazione di archivi dell’Otto e del Novecento. In particolare, la Fondazione ha dato vita al progetto “Una città per gli archivi” con cui si è voluto recuperare, raccogliere e rendere fruibili, grazie al coordinamento scientifico di un comitato di esperti, (formato da Linda Giuva, Mariella Guercio, Guido Melis, Stefano Vitali e Isabella Zanni Rosiello), un numero considerevole di archivi (oltre ottanta).
Nello specifico il progetto in questione si è posto, come già accennato, tre obiettivi:
recuperare archivi bolognesi che si trovavano in condizioni di pericolo e a rischio di dispersione;
renderli accessibili;
renderli fruibili via web alla collettività.
Per poter realizzare tutto questo, è stata necessaria, nonché preziosa, la collaborazione di vari soggetti: le Fondazioni bancarie quali la Fondazione Cassa di risparmio in Bologna e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna le quali per due anni hanno finanziato il progetto congiuntamente; la Soprintendenza archivistica per l’Emilia-Romagna e l’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della regione Emilia-Romagna (IBC).
Attualmente questo progetto ha permesso la raccolta di vario materiale: documenti, fotografie, manifesti, disegni, mappe, piante, filmati e registrazioni sonore.
Del portale web archIVI (www.cittadegliarchivi.it), aperto nell’aprile del 2013, usufruiscono non solo esperti del settore, ma anche utenti non specialisti, dimostrando in questo modo che queste iniziative vengono ben accolte dalla collettività e meritano di continuare ad essere promosse a livello nazionale ed europeo, attraverso il contributo di molteplici soggetti, a partire dalla ideazione fino alla effettiva realizzazione.
Eugenio Lo Sardo ha esordito descrivendo brevemente l’importanza, le funzioni e le attività dell’ente pubblico di cui è portavoce.  L’Archivio centrale dello Stato rappresenta un organo della democrazia utile non soltanto alla conservazione della memoria ma anche alla costruzione della stessa. L’archivista ha infatti un ruolo attivo di mediazione tra lo Stato e i cittadini, in particolare relativamente alle esigenze di sicurezza nazionale. Rappresenta dunque, quello dell’archivista, un lavoro rivolto oltre che al passato e alla sua conservazione, soprattutto al futuro nonché ad un passato recente che è ancora vivo, che non è ancora “storia passata”, e mostra le sue ripercussioni nel presente. Basti, ad esempio, pensare alla strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, o ancora alla strage di piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, eventi per i quali le sentenze definitive pur intervenute non hanno potuto tuttavia completamente dissolvere dubbi e contraddizioni né fornire adeguate risposte a domande di conoscenza che rimangono dunque ancora aperte.
Lo Sardo ha inoltre ribadito l’importanza, anche dal punto di vista culturale, del diritto e dell’insieme delle leggi (in senso lato) di uno Stato, di cui l’Archivio centrale si fa custode: l’insieme delle norme di un ordinamento, infatti, costituisce patrimonio storico di fondamentale valore (accanto alle opere d’arte, ai musei, alle biblioteche, alla lingua…), da tutelare sia per la salvaguardia della memoria che per la costruzione del futuro, in quanto espressione della grandezza culturale di un paese.
Anche per l’Archivio centrale dello Stato non sfugge infine l’aspetto della “digitalizzazione della memoria”, strumento che consente un più diretto ed immediato accesso dei cittadini a una grandissima varietà di informazioni e che quindi permette il mantenimento e la continua costruzione della democrazia.
Simona Luciani ha posto l’accento su un aspetto peculiare dell’archivio di cui si è resa portavoce: quello di orientarsi verso l’internazionalizzazione e il globale.
L’archivio della Fondazione Basso conserva attualmente 65 fondi archivistici, un patrimonio comprensivo di tutte le carte di Lelio Basso relative alla sua attività politica e culturale, altri documenti relativi alla politica italiana e internazionale, nonché i fondi relativi all’attività internazionale e per i diritti dei popoli svolta dallo stesso Basso attraverso il Tribunale Russell e il Tribunale Russell 2, e dalla Fondazione internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli.
Tutto questo variegato materiale, sedimentatosi negli anni, orienta l’archivio su percorsi transnazionali: gli archivi relativi al Tribunale Russell (per il Vietnam) e al tribunale Russell 2 (per Cile, Brasile e America Latina), consentono ad esempio la conservazione di preziosa documentazione non rintracciabile nel paese di origine, perché non ammessa. Questo materiale quindi configura la “memoria” come fucina di un processo di globalizzazione (intesa qui come diffusione di cultura democratica a livello globale) che parte dal basso ed è legata ai vari movimenti per i diritti umani, civili, politici, sociali. Si pensi ad esempio al fatto che il governo del Brasile abbia finanziato il Tribunale Russel 2 per trasportare documenti nel territorio brasiliano (si parla in questo caso di “memoria veicolata”) o ancora al progetto “Memoria senza confine” che riguarda la memoria storica dell’arcipelago di Capo Verde.
Per quanto riguarda il mondo digitale, sul suo sito www.fondazionebasso.it, la Fondazione si prodiga per fornire strumenti di ricerca sul web anche ad utenti non specialisti e all’estero. Tuttavia, il lavoro incontra delle difficoltà quando si tratta di diffondere la “memoria” soprattutto a livello internazionale per via di tre ordini di problemi:
i costi economici della digitalizzazione del materiale cartaceo;
la questione della dicotomia comunicazione/diffusione una volta che il documento sia stato messo in rete
la conservazione dei file digitalizzati: l’AICI costituirebbe, a tal riguardo, un ambiente ideale per ripartire i costi di repository consortili.
La relatrice conclude, infine, con un invito alla creazione di tavole rotonde dove poter immaginare e creare idee risolutive di queste problematiche.
Pietro Polito, dopo aver rimarcato l’importanza non solo della rete di relazioni esistente tra gli istituti, ma anche in alcuni casi del legame intercorrente tra i personaggi cui gli istituti sono intitolati, (esempio Basso e Gobetti), ha articolato il suo intervento sui seguenti punti:
la memoria culturale;
il Centro Gobetti;
il progetto sulla memoria;
considerazioni conclusive.
Relativamente al punto 1) Polito cita il libro “Pedagogia della memoria” di Duccio Demetrio, nel quale viene introdotto il concetto di memoria interculturale e vengono individuati tre momenti della stessa:
il rapporto tra passato, presente e futuro;
il rapporto tra memoria e dialogo;
il rapporto tra memoria e democrazia, con particolare attenzione ai “luoghi” della memoria, alla cui conoscenza ed importanza occorre essere “educati”.
Il testo di riferimento per questa riflessione guarda quindi alla memoria come luogo dove risiede la nostra storia e identità. Smarrirla o non coltivarla equivarrebbe allora a perdere sé stessi, in quanto la curiosità verso l’altro implica sempre attenzione al proprio ed all’altrui passato.
Per quanto riguarda il punto 2) Polito ha enunciato brevemente la multiforme esperienza del Centro studi Piero Gobetti, dotato di biblioteca, archivio, nonché avente sede proprio nella casa dove Piero e Ada Gobetti vissero, costituendo quindi già di per sé un “luogo della memoria”.
Al punto 3) Polito descrive il progetto sulla memoria intitolato “Memoranda” che ha l’obiettivo di descrivere i luoghi della memoria e di realizzare una “geografia” della stessa: luoghi che siano dimore ma non solo, anche caffè o luoghi di ritrovo di personaggi che hanno segnato la storia del Novecento.
Infine, venendo al punto 4), Polito conclude il suo intervento parlando della “nostalgia” e del suo rapporto con la “memoria” e riprende a tal riguardo parole del presidente on. Valdo Spini relative al “non lavorare all’insegna della nostalgia del passato” e ha ricordato quello che fu l’atteggiamento di Piero Gobetti verso la memoria: quello di “storico del presente”.
 
I commenti degli Under 35
“Il ruolo delle fondazioni nel mantenere viva la memoria è sicuramente primario, specialmente rispetto alla storia italiana recente. Questo è il tema centrale sposato da tutti gli intervenuti al tavolo. La storia del Novecento ha necessità di essere riscoperta, riesaminata ma soprattutto ha la necessità di essere divulgata attraverso nuovi sistemi di comunicazione e aperta a tutta la cittadinanza.
Da una parte è necessario un lavoro di ricerca e studio, dall’altro si indagano nuovi strumenti, aggiungerei creativi, volti a realizzare una diffusione capace di raggiungere specialmente le nuove generazioni che maggiormente subiscono il vuoto storico che si è creato nel tempo.
Sono stati presentati dei progetti per rendere più fruibili gli archivi delle diverse realtà: chi predilige la digitalizzazione dei testi per renderli accessibili anche a distanza, e chi preferisce esaltare i luoghi che custodiscono la memoria (molto spesso appartamenti di personaggi storici) come spazi dove potersi sentire più coinvolti.
Ma se questa può definirsi “la faccia bella della medaglia” intrisa di fascino e di nobili intenzioni, dall’altra vengono riscontrati problemi e dilemmi, specialmente legati agli scarsi fondi a disposizione delle fondazioni che spesso si trovano in difficoltà nel realizzare questi progetti per i quali urgono validi professionisti e nuove strumentazioni”.
Daniele Bini
“La tavola tematica sugli archivi della memoria del Novecento si è rivelata in continuità con quella incentrata sul tema della digitalizzazione. La memoria culturale, di fondamentale importanza nelle attività degli istituti, è stata argomento di particolare interesse. I relatori, nell’illustrare le attività svolte negli archivi, hanno fatto emergere la centralità della conservazione della memoria e il rapporto con le nuove tecnologie digitali. Le tematiche affrontate sono state varie: il rapporto tra l’identità locale e sovranazionale, il ruolo della digitalizzazione, la necessità di elaborare nuove strategie per la valorizzazione dei documenti d’archivio. Il tema della conservazione e valorizzazione delle carte d’archivio si rivela importante dal punto di vista scientifico e la possibilità di consultazione in digitale di documenti d’archivio unici può senz’altro fornire nuovi spunti di ricerca. Dunque, l’archivio da un lato rappresenta con le sue carte di straordinaria ricchezza la tradizione, dall’altro – nel mondo del digitale – costituisce un polo importante dell’innovazione culturale”.
Francesca Cialdini
“Cultura, identità e memoria: temi fortemente intrecciati, interdipendenti ed influenti l’uno sull’altro. In particolare, il tema della memoria ricopre un ruolo fondamentale nella definizione dell’identità culturale di un paese. Con il termine “memoria” si intende quella capacità di ricordare elementi del passato e di localizzarli in un tempo e in uno spazio, ma è curioso andare a scoprire quella che è l’etimologia del termine “ricordare”, composta da “re” che significa indietro e “cor” cuore. La memoria diviene quindi quella possibilità di consultare il passato, di interrogarlo, di trovarcisi ancora, secondo un meccanismo del tutto attivo e dinamico da parte di chi decide di compierlo. Appare sempre più necessario curare il processo che permette di attivare la memoria e proprio su questo gli istituti si interrogano. Sono fruibili le informazioni di un passato ormai passato ma che necessita di far parte del presente? Alla luce di ciò che accade oggi, emergono criticità sulla fruizione e sulla valorizzazione del patrimonio che ci è stato tramandato. Nello specifico, le problematiche maggiori si riscontrano nella valorizzazione degli archivi del ‘900. Quindi è importante in primis reperire, recuperare, riordinare e valorizzare queste informazioni per poi renderle vive e utili a chi ne fa uso. Queste criticità, infatti, vengono riscontrate in particolar modo dai giovani fruitori, come gli studenti in formazione che, nell’approfondire specifici temi e fenomeni, si trovano in difficoltà nella ricerca di alcune informazioni appartenenti ad archivi difficilmente reperibili. Rendere queste informazioni più accessibili è la nuova sfida che viene lanciata agli istituti culturali e a coloro che accolgono qualsiasi informazione appartenente alla storia culturale passata; e oltre a comprendere e a pensare metodologie più innovative per la fruizione delle informazioni, appare altrettanto importante riflettere sulla rielaborazione ed interpretazione di esse. È accaduto in passato che la trasmissione di alcune informazioni venisse riportata secondo una sola versione dei fatti; un patrimonio ricco, invece, è quel contenitore che abbraccia più filoni di pensiero, più idee, più letture degli eventi che si mescolano e vengono rielaborate in modo tale da essere tramandate in maniera più completa possibile. In questo modo il fruitore può davvero ricreare determinati eventi tramite i propri pensieri e le proprie idee, divenendo questa una bella e stimolante eredità che i giovani hanno l’onore di ricevere e l’onere di custodire al meglio”.
Ilaria di Matteo
“L’importanza della “memoria”, della sua tutela e conservazione e al contempo della sua trasmissione, gli strumenti attraverso i quali rispondere a tali istanze, le dinamiche che le realtà degli istituti si trovano ad affrontare in relazione ad essi: tutto questo ed altro ancora di interessante, è stato l’oggetto del workshop in questione, nel quale il concetto di “memoria storica” ha funto, al contempo, da linea guida, filtro e contenitore.
La “memoria storica” riguarda indubbiamente il passato, ma si svolge nel presente e va proiettata nel futuro. Ecco perché strumenti come l’onestà intellettuale, il rigore scientifico, la passione e l’entusiasmo per il proprio lavoro non possono che rivelarsi fondamentali e utili agli operatori del settore, che si fanno custodi e al contempo promotori della “memoria”.
Le tecnologie odierne consentono oramai a quasi a tutti, esperti del settore, ricercatori, appassionati o semplici curiosi, di attingere a preziosissime informazioni, quali sono appunto quelle degli archivi storici e delle biblioteche, anche solo con un semplice clic: e questa non può non essere considerata una grande risorsa, uno stimolo propulsivo alla curiosità degli gli utenti, nonché una spinta al “nuovo” e all’aggiornamento costante per gli addetti ai lavori. Nel mutare dei tempi, resta però punto fermo, ed è quello emblematicamente fissato dai “luoghi della memoria”, quelle mute testimonianze che rivivono ad ogni sguardo che si fermi ad osservarle, a conoscerle, ad ascoltarle”.
Antonella Nastasi
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HYPERLINK “https://design-italia.readthedocs.io/it/stable/” https://design-italia.readthedocs.io/it/stable/ .
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Il Rapporto Giovani è la ricerca sulla realtà giovanile promossa dall’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori in collaborazione con l’Università Cattolica e col sostegno di Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo.
Così F. INTROINI e C. PASQUALINI, I Millennials. Generazione social?, in La condizione giovanile in Italia – Rapporto Giovani 2017, Ed. Il Mulino, 2017, p. 121. Più in dettaglio e con riguardo particolarmente all’utilizzo dei social networks, emerge che il 90,3% dei giovani tra i 18 e 29 anni dichiara di possedere un account Facebook, il 56,6% su Instagram e il 53,9% su Google+. Seguono poi Twitter (39.9%), Linkedin (22,4%), Pinterest (20,4%), Snapchat (16,1%), Flickr (5,9%) e Foursquare (3,3%).
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Legge regionale n. 3 del 3 marzo 2016 “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento”.